Italian Graffiti – Percorsi italiani nella (s)memoria cinematografica collettiva a cura di Massimiliano Schiavoni
Macario piaceva al pubblico fascista. Di quell’Italia da operetta rispettava le attese comiche, i canoni più o meno dettati al varietà e al cinema dal regime, il disimpegno e la brillantezza mondana, lontano da qualsiasi presa sulla realtà. E’ vero che in buona parte la comicità di Macario si fondava sul gioco linguistico, e niente è più destabilizzante del sovvertimento della comunicazione (Freud e il suo saggio “Il motto di spirito” ben insegnano). Proprio in quegli anni la “rivoluzione della parola” era uno degli slogan più diffusi nelle varie avanguardie europee, letterarie, teatrali e cinematografiche. Ma è altrettanto vero che tutto dipende dall’uso e dall’intento riposto in quel rovesciamento linguistico. Macario inseguiva spesso il surreale, ma su un piano di gioco così elementare da risultare più o meno innocuo, adatto alle risatine contenute di un pubblico ben pettinato. Piacque anche al pubblico popolare, in quanto figura buffa e spensierata, dalla mimica molto codificata. Per molti, forse, incarnò un’ingenua leggerezza di cui c’era bisogno, specie quando iniziò a darsi al cinema sulla fine degli anni ’30, ovvero in tempi di presagi bellici.
Dal 20 giugno Ripley’s Video ha recuperato in cofanetto dvd 4 suoi film, tra cui spicca, per interesse filologico, Aria di paese (1933) di Eugenio De Liguoro, prima introvabile apparizione al cinema del comico piemontese. Gli altri titoli sono Il pirata sono io! (1940) di Mario Mattoli, Il vagabondo (1941) di Carlo Borghesio e Non me lo dire! (1940) di Mario Mattoli. Quest’ultimo appare di particolare interesse, poiché Macario è inserito in un contesto assai codificato e riconoscibile. Per quanto elementare e per lo più centrato sulla figura del comico, il tessuto narrativo rievoca gli schemi della sophisticated comedy americana di quegli anni. Anche il profilmico ne scimmiotta i tratti, sia pure in modo goffo e approssimativo. Un’ambientazione mondana (Macario incarna un nobile decaduto), un intrigo classico basato sull’episodico ripetersi di fallimentari tentati omicidi, e il vago calco di meccanismi comici “a catena”, tra lo slapstick e Mack Sennett. Ma ha ragione Tatti Sanguineti quando afferma che in Italia si è sempre stati incapaci di fare commedie di questo tipo. Non me lo dire! ne è una piena conferma, e per ragioni strettamente cinematografiche: come spesso nel cinema comico italiano di quegli anni, i ritmi narrativi sono fatalmente allungati, le singole inquadrature tendono spesso all’autosufficienza, restando troppo debitrici di schemi teatrali, probabilmente anche per tenere il passo della comicità verbale di Macario. Il modello americano fondava la sua riuscita proprio sulla rapidità del montaggio o sull’esplosione ininterrotta di gag verbali (basti pensare a Susanna!, 1939, di Howard Hawks, commedia dal montaggio “immobile” ma resa travolgente dalla rutilante catena di paradossi verbali). Mattoli, e i pur nobili sceneggiatori Marchesi, Metz e Steno, allentano tragicamente i tempi, lasciano a Macario interminabili pagine di totale protagonismo per intonare qualche canzoncina al pianoforte e di fatto chiudono il film in un terreno ibrido, condannandolo a un rapidissimo invecchiamento comico. Poi, certo, ci sono anche i tenui giochi con le convenzioni del cinema: in apertura e chiusura Macario gioca in prima persona coi trasparenti, così come un pazzo fugge su una moto che non c’è. Ma tutt’al più son sorrisetti, mentre la comicità si spegne, anno dopo anno. Tutto all’opposto di Totò, che pur muovendosi in un cinema forse anche più immobile e allungato, aveva dalla sua parte un gioco linguistico impostato su coordinate universali.
Con questo articolo Italian Graffiti vi augura buone vacanze e vi dà appuntamento a settembre.