Italian Graffiti – Percorsi italiani nella (s)memoria cinematografica collettiva a cura di Massimiliano Schiavoni
Oramai da tre anni Il sorpasso fa parte costante di questa rubrica settimanale. La scelta del logo di Italian Graffiti ricadde su una fotografia tratta dal film di Risi perché, pur nell’enorme varietà estetica proposta dal cinema italiano dalle origini agli anni ’80, Gassman e Trintignant a bordo della Lancia Aurelia B24 costituiscono uno degli emblemi più forti di un’identità nazionale (parziale, ma incisiva) in forma di racconto per immagini. Proprio quest’estate Il sorpasso compie 50 anni, e per queste calde settimane estive il comune di Rosignano Marittimo ha organizzato una serie di celebrazioni a Castiglioncello, meta finale del viaggio di Ferragosto compiuto dai due protagonisti. Sono state anche rintracciate varie comparse che lavorarono al film, riunite domenica 15 luglio per una rimpatriata sul filo delle memorie personali, così come si è rievocata, tramite la testimonianza dei carrozzieri locali che se ne occuparono, la costruzione della macchina da distruggere nel finale.
Cinquant’anni sono un bel traguardo, soprattutto quando riguarda un film che non invecchia, che può esser rivisto senza pesantezze da chi ormai lo conosce fin troppo bene, e visto per la prima volta dalle generazioni più giovani, per trovare uno specchio veritiero e crudele sulle coordinate morali e sociali da cui il nostro Paese proviene e sulle quali continua più o meno a restare. Di questo aspetto, più esteriore e di immediata percezione, si è sempre detto molto: la cialtroneria di Bruno Cortona, che attrae e respinge, il benessere tutto di superficie del boom anni ’60, una società sempre più frivola e al contempo spietata, che non ammette dubbi e insicurezze, ben narrate nel personaggio di Roberto Mariani. Ma in realtà Il sorpasso condusse anche una piccola grande rivoluzione stilistica, forse più facilmente individuabile a posteriori. “L’hai visto L’eclisse? Io c’ho dormito, ‘na bella pennichella, bel regista Antonioni”: Dino Risi mise in bocca a Bruno Cortona una battuta acidissima sul cinema dell’alienazione che proprio in quegli anni Antonioni veniva componendo. Ma Risi stesso non era del tutto estraneo alla spinta verso forme narrative nuove, a un’indagine più problematica sui propri personaggi. Innanzitutto, il racconto: frammentato in una collana di episodi slegati, tenuti insieme dalla significativa unità del viaggio e della strada, che da una parte è funzionale a un facile, e talvolta un po’ meccanico, carosello sui tratti più macroscopici della trasformazione antropologica in atto in Italia (non manca nulla, dai contadini che ballano il twist in mezzo ai campi, alle baruffe per salire in corriera, ai cheek-to-cheek delle balere per neo-arricchiti, al nuovo mito delle vacanze e dei motoscafi), dall’altra abbozza possibilità narrative appena accennate. Ovvero, in un mondo percettivamente sempre più frammentato, anche il cinema non può più raccontare in modo esaustivo, ma solo seguire brani incerti di realtà. In più, Risi innesta dubbi e disagi nella formula collaudata della commedia, “dilaniando” i propri protagonisti e la loro resa estetica. Ricorrendo certo a strumenti di larga accessibilità, ma riservando una nuova attenzione a penetranti sfumature. Così Bruno Cortona è in fondo un uomo solo e malinconico: lo amiamo e lo rifiutiamo al contempo. Così Roberto Mariani apre scorci di lancinante amarezza, anche grazie all’utilizzo più o meno inedito per il nostro cinema della voce over. Una commedia solare e livida, dove vediamo “altri” divertirsi, ma senza condividerne mai le gioie. Una festa perpetua a cui, come Roberto Mariani, non siamo invitati a partecipare.
La frecciata ad Antonioni: