Italian Graffiti
Percorsi italiani nella (s)memoria cinematografica collettiva
“I nostri mariti” (1966) di autori vari: la commedia “a episodi” italiana, puramente ludica e commerciale, eppure coraggiosa se paragonata al cinema italiano attuale
(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)
15/03/11 – Parlare della commedia a episodi italiana, che ha vissuto il suo momento di massima produzione e successo negli anni ’60, assume oggi un certo valore d’attualità, visto che, sotto forma di (discutibile) omaggio o riproposizione di classici di un tempo (I Mostri oggi) o di nuova (?) invenzione sulla stessa struttura (i Manuali di Giovanni Veronesi), tale modello narrativo è ritornato prepotentemente protagonista del cinema italiano nella sua veste più industriale di massa. Nella maggior parte dei casi, i film assemblati a episodi negli anni ’60 nascevano su esigenze nient’altro che commerciali. Accumulare più star pagandole meno che per un intero lungometraggio, riesumare soggetti scartati e quindi probabilmente acquistati a basso prezzo, sfruttare con metodo massivo i canoni di commedia nelle sue forme più fruste. Vista la brevità di durata, i caratteri fondanti della commedia italiana giocoforza si estremizzano in manierismo e grottesco sfrenato, tanto da dar vita a personaggi poco più che macchietta, e a strutture narrative del respiro di una barzelletta.
I nostri mariti appare emblematico di tale tendenza. Propone tre brevi episodi, assolda tre dei migliori professionisti nel genere-commedia in sede di regia (Luigi Filippo D’Amico, Luigi Zampa e Dino Risi), e almeno due comici di larghissimo pubblico, Alberto Sordi e Ugo Tognazzi. Il filo unificante, se poteva risultare più forte in altre opere precedenti a racconto multiplo, qui è già ridotto a puro pretesto vagamente di costume: tre storie sui mariti, sul conflitto uomo-donna e su varie beghe coniugali, tanto in voga in quegli anni, che di profondo comune denominatore non hanno praticamente nulla. La sciattezza produttiva e la totale trascuratezza di progetto estetico unitario sono evidenti in modo marchiano in un primo, banale dato di fatto: dei tre episodi, due sono in bianco-e-nero e l’altro è a colori. Anzi, quello a colori ha una prima, inspiegabile sequenza in bianco-e-nero, per poi affidarsi totalmente al colore. Inutile farsi strane idee su chissà quale ricerca autoriale in tale alternanza; semplicemente, i tre prodotti nascono separati ed esteticamente indipendenti, e solo in un secondo momento vengono assemblati in un unico prodotto di distribuzione. E i tre mini-film vanno ognuno per conto proprio: provocatorio, di aria ferreriana ma volgarotto il segmento di D’Amico con Alberto Sordi: molto più scritto e finemente costruito (la sceneggiatura è di Age, Scarpelli e Mario Monicelli) quello di Zampa, che pare tener presente il grottesco aggressivo e “provinciale” di Pietro Germi: scanzonato, ben recitato e “autoreferenziale” quello di Risi, che scherza coi borgatari pasoliniani tramite un Ugo Tognazzi in stato di grazia.
La differenza rispetto all’oggi? Apparentemente nessuna. Ma, nei fatti, il solco è abissale. Soprattutto per la capacità, allora, di radicarsi in un immaginario sì facile e a pronta presa, ma anche davvero pertinente e connotativo della società del tempo. Il film a episodi odierno si radica solo sulla presenza degli attori, e su schemi davvero vecchi e inattuali, ripercorsi come pura struttura meccanica. E poi, incredibilmente, la differenza la fa un impensabile coraggio. I nostri mariti è totalmente innocuo, eppure parla di donne che cambiano sesso, di gravidanze ipocrite e scherza con le forze dell’ordine. Oggi? Si pubblicizzano telefonini, e sostanzialmente non si ha più il coraggio di scherzare. Giammai.
Alberto Sordi si ribella all’inarrestabile inversione di ruoli nel suo ménage di coppia, sotto lo sguardo di una suocera non a caso “baffuta”: