Italian Graffiti – Percorsi italiani nella (s)memoria cinematografica collettiva a cura di Massimiliano Schiavoni
Esiste anche nel nostro cinema una storia di contaminazioni di generi, autoctoni e d’importazione, e non necessariamente bisogna pescare negli anni ’60 e ’70 che tanto piacciono a Quentin Tarantino. Anche il cinema italiano commerciale a cavallo tra anni ’40 e ’50 teneva spesso a modello la produzione americana di quegli anni, e la contaminava con generi molto popolari nel nostro paese. In realtà non era soltanto il cinema ultra-popolare a percorrere tali strade; basti pensare alle prime opere di un autore blasonato come Pietro Germi, o alla splendida combinazione di materiali eterogenei che compone Riso amaro (1949) di Giuseppe De Santis. Alina, opera misconosciuta di Giorgio Pastina che Medusa ha riproposto in dvd dal 6 giugno, testimonia infatti, in primo luogo, la risonanza che il film di De Santis aveva riscosso, aprendo la strada a una sorta di exploitation condotta in opere di struttura simile, quantomeno narrativa e drammaturgica. Anna (1952) di Alberto Lattuada riproporrà addirittura lo stesso trio di protagonisti, Mangano-Vallone-Gassman, conquistando uno dei maggiori successi di pubblico del suo tempo. Anche in Alina troviamo una prima, macroscopica eredità diretta: Doris Dowling, attrice americana dal non facile destino, arriva direttamente da Riso amaro nel film di Pastina, in un ruolo secondario di dark lady.
Tra le prime vere occasioni cinematografiche da protagonista per Gina Lollobrigida, Alina ripresenta lo stesso intreccio in chiave assai più vulgata: una donna coraggiosa e di saldi principi, che si piega al crimine solo per amore (in questo caso, il contrabbando tra le montagne di confine tra Italia e Francia), combattuta poi tra due rocciosi personaggi maschili. Il prode Amedeo Nazzari, e il malvagio Otello Toso. Il melodramma all’italiana, dai toni esagitati e sovraccarichi, e il noir americano. La fresca eredità del neorealismo, che però è conservata soltanto nell’orizzonte sociale evocato ed è riletta secondo modelli di narrazione tradizionale e avvincente. Il tutto suona, come in Riso amaro del resto, altamente assurdo e improbabile. La struttura di genere e l’adesione acritica a modelli narrativi di successo sopravanzano sulla credibilità dei personaggi, scolpiti nella pietra e declamanti stentoree battute “americane” in mezzo alla miseria di gelide montagne. E se da un lato De Santis elevava il suo film tramite una sfrenata e consapevole contaminazione stilistica, per contro Pastina assembla cliché su scenografie spesso di cartapesta, in cui la rigidità del teatro di posa annulla anche qualsiasi credibilità ambientale. Tuttavia, sul piano narrativo il film è ben costruito, sia pure seguendo uno svolgimento dei più prevedibili. Fin dall’inizio si può individuare il Salvatore e il Peccatore, e si è sicuri che la ricompensa finale sarà garantita. Proprio questa, in fondo, era la chiave del successo di quei film. Per il popolo riconoscere i valori messi in gioco fin dalla semplice identificazione dell’attore prescelto costituiva una sorta di “patrimonio estetico”. Il divismo di casa nostra, e l’ottimismo garantito da una struttura collaudata, rispecchiavano una parte del cinema americano classico di quegli anni anche nelle sue intrinseche finalità socio-culturali. Tale ottimismo programmatico, sia chiaro, non ha nulla a che vedere né con De Santis né con Lattuada. Appartiene a un’altra schiera di autori, da Matarazzo a Pastina, che rileggevano opere di “alto” cinema popolare in una chiave ancor più accessibile. Puro intrattenimento, tra sospiri, pistole e criminali.