Italian Graffiti
Percorsi italiani nella (s)memoria cinematogrfaica collettiva
“Metti una sera a cena” (1969) di Giuseppe Patroni Griffi: il pop-cinema italiano, tra datatissimi intellettualismi e provocazioni (anti)borghesi
(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)
27/04/10 – In principio era il testo teatrale, un grande successo scritto e portato in scena dallo stesso Patroni Griffi, che poi tradusse in cinema con la collaborazione alla sceneggiatura di Dario Argento e Carlo Carunchio. Film irritante, spesso artificioso, ma anche beffardo verso se stesso e verso i personaggi narrati. Per rivederlo oggi ci vuole anche un certo coraggio, visto che, accanto a numerosi brani d’intensità narrativa e pure di una certa verità psicologica, presenta superatissime pesantezze sperimentali “a buon mercato”. Probabilmente già all’epoca tale percezione di sperimentazione vulgata per tutti i palati doveva essere piuttosto forte; si può credere alla sincerità di una ricerca formale quando s’incarna in star dell’epoca in aria di fotoromanzo (Florinda Bolkan e Tony Musante, mai attori eccelsi ma degni di rispetto per la loro estrema funzionalità) e quando va a collocarsi nel solco della trasgressione mercificata che tanta cassa faceva tra anni ’60 e ’70? E’ l’unica spiegazione che si può dare al grande successo di pubblico che Metti una sera a cena ebbe all’epoca. Con le sue teorizzazioni sui triangoli amorosi (unica possibile forma di felicità, come sostiene sul finale il personaggio-demiurgo di Jean-Louis Trintignant), con le sue relative trasgressioni (ad oggi, piuttosto risibili) e rapporti a tre mai troppo espliciti, Patroni Griffi riuscì a far digerire al pubblico quasi due ore di dissertazioni parafilosofiche sul rapporto di coppia e sul disfacimento della cultura occidentale (con la scomparsa della coppia esclusiva, o meglio con lo svelamento dell’inganno sotteso all’idea dell’amore esclusivo, sparisce uno dei pilastri della nostra cultura, e trascina verso la disgregazione tutto un sistema sociale), intervallate da fumose e presuntuose riflessioni sul lavoro dell’attore in teatro e sul rapporto conflittuale tra la figura dell’intellettuale e la massa. Intellettuale, si badi bene, che stringi stringi si esprime a frasi da baci Perugina, anche se prese molto sul serio. Facendosi forte di una forma cinematografica “espansa”, che assembla di tutto e di più, da una fotografia in cerca di cromatismi pop a zoom da nausea, com’era in voga nel nostro cinema in quegli anni. Dal cinismo beffardo al gusto per il romanticismo all’italiana stile Anonimo veneziano, che Enrico Maria Salerno girerà due anni dopo guardacaso sempre con Florinda Bolkan e Tony Musante.
Di Patroni Griffi davvero nessuno si ricorda più. Grande regista teatrale, autore di soli sei film e una serie televisiva, per il suo cinema, a conti fatti, ha raccolto più mazzate che elogi. Metti una sera a cena, con tutti i limiti dell’opera che invecchia malissimo, resta comunque la sua opera migliore. Perché trae, innanzitutto, il meglio da un quintetto d’attori dei più diversi: oltre ai citati, c’è un giovane Lino Capolicchio, sorta di escort ante litteram anarchico e assoluto, e Annie Girardot nel ritratto più divertente, l’amica Giovanna invidiosa che tuttavia resta “aggrappata alla tavola” dei commensali. Sul coté sperimentale il film oggi risulta piuttosto indigesto, ma qua e là emergono accenti sinceri nella descrizione di cinque personaggi che tentano ogni carta, e accettano ogni forma di compromesso, pur di non rimanere soli. Se i dialoghi tradiscono nel modo più evidente l’origine teatrale, d’altra parte il montaggio è audace, mirato alla totale frammentazione del racconto (non esiste presente e passato, e pure i confini tra realtà e rappresentazione sono sfrangiati): merce rara nel cinema italiano del tempo. Il tono, tutto sommato, in mezzo a mille seriosità, si mantiene anche divertito, e la cena a chiusura del film, come tutte le sequenze intorno alla tavola, è un bel pezzo di regia, recitazione e brillantezza narrativa. La descrizione di una borghesia intellettuale, alternativa e radical, che però non riesce a districarsi nell’ipocrisia dei sentimenti, una borghesia che condanna l’idea romantica dell’amore ma al contempo ne rimane vittima, è molto ben centrata, ed è forse l’unico valore duraturo di un film che, al contrario, va disfacendosi contro la spietata prova del tempo.
Ma aveva un po’ ragione Gian Maria Volonté, quando furioso abbandonò il set accusando il film di essere deprecabile espressione di cinema borghese. Nelle sue provocazioni antiborghesi, di fatto Patroni Griffi avvolge spesso il suo stile in cliché buoni per tutte le stagioni. Jean-Louis Trintignant e Florinda Bolkan che si concedono disperate effusioni in gommone, romanticismi a cui, nonostante le dichiarazioni d’intenti, autore e pubblico decidono, complici e consenzienti, di credere, gusto visivo per la piccola trasgressione che non è mai corroborata da vera riflessione, e sperimentalismi declinati in forma accessibile a tutti. La trasgressione, in tale forma, comprende già la sua stessa censura. Meraviglioso, questo sì, il commento musicale di Ennio Morricone, uno dei suoi lavori più riusciti, che tuttavia contribuisce a quella “visione filmica borghese” di cui Patroni Griffi fu accusato. Una melodia amara e disincantata, che sottolinea invasivamente la deriva sentimentale dei personaggi. La stagione pop del cinema italiano fu breve e assolutamente poco produttiva. Metti una sera a cena resta uno dei suoi esiti più interessanti. Se si è amanti dell’archeologia cinematografica, del confronto con immaginari perduti, se si ha il gusto del bric-à-brac estetico, merita senz’altro una visione in qualità di documento d’epoca.