Italian Graffiti – Percorsi italiani nella (s)memoria cinematografica collettiva a cura di Massimiliano Schiavoni
C’era una volta in America è una fantasia infantile. Quella della primaria fedeltà all’amicizia che si scontra con le esigenze della vita adulta. Della donna vissuta come oggetto oscuro e ostile, da catturare con la violenza. Della criminalità vissuta come gioco esclusivamente maschile, fatto di goliardia e animalità, senso d’appartenenza a un gruppo e prevaricazione. E’ uno specchio psichico primordiale trasferito nel cinema di genere, il noir, a suo modo genere-infanzia della storia del cinema. L’ultimo film di Sergio Leone, uno dei pochi considerati oggetto di culto trasversale nel nostro cinema, capace di innamorare generazioni di pubblico popolare, studiosi e cinefili, è più di tutto questo. E’ una summa di generi e ispirazioni, un romanzo moderno (alla Proust, alla Joyce) che lavora su materiali di letteratura convenzionale e di largo consumo (il noir, il gangster novel). Il film è stato riproposto in apertura della XXVI edizione del Festival “Il Cinema Ritrovato” di Bologna, nella sua versione restaurata dalla Cineteca della città, col reinserimento di brani tagliati da Leone per andare incontro alle richieste della produzione, per un totale di circa 25 minuti di materiale inedito. I nuovi inserti, a dire il vero, poco aggiungono e talvolta, come spesso accade in questo tipo di operazioni, “tolgono” qualcosa alla versione precedente. In alcuni casi inficiano la continuità del film, generando qualche scompenso nella tenuta emotiva del montaggio (in particolare l’ampliamento del personaggio di Eve, che banalizza il disperato stupro di Noodles ai danni di Deborah). In altri casi, si rasenta la nota di colore: il tanto annunciato reinserimento del personaggio di Louise Fletcher si riduce a pochi minuti di ulteriore straniamento, una figura tendente all’astratto che enfatizza una volta di più il cupio dissolvi su cui è fondato il personaggio di Noodles.
Tuttavia, è da segnalare il recupero di una sequenza non eccezionale, ma particolarmente significativa. Subito dopo il famoso tuffo in mare in automobile, i protagonisti riemergono dalle acque, giocando come bambini, rievocando la sequenza del contrabbando per mare quand’erano ancora ragazzi. Allora, Noodles cercava Max in acqua, temendo che fosse annegato. Adesso è Max a cercare Noodles con la stessa intensità. Qualitativamente, anche in questo caso il recupero non è dei migliori. L’immagine è sgranata e il montaggio delle inquadrature è palesemente “intuito”, ricucendo materiali secondo un découpage occasionale. “Dei materiali inediti abbiamo ritrovato solo gli interpositivi e su di essi abbiamo lavorato” ha precisato Raffaella Leone presentando il film, “Quindi i reinserimenti purtroppo sono palesemente di qualità diversa rispetto al resto del film”. Ma l’episodio dopo il tuffo in macchina è il solo reinserimento che assuma un vero peso specifico nell’economia narrativa del film. Chiude una pagina di vita adulta, rievocando un episodio infantile e definendo specularmente quel senso di appartenenza reciproca che caratterizza il rapporto di odio/amore, fiducia/diffidenza tra Max e Noodles lungo tutta la loro vita. Un recupero che si allinea alla poetica di fondo, più sincera e più commovente, sottostante al progetto di Sergio Leone. Che in macrostruttura si configura sì come una malinconica decostruzione dei miti fondanti del cinema americano classico, ma anche, su un piano più intimo e sottovoce, come il racconto universale di archetipi psichici maschili. In cui sono i sottintesi a dettare la narrazione, dando voce a uno sguardo squisitamente europeo applicato a materiali americani. Non a caso ai produttori americani il film non piacque, e lo sottoposero a un martirio di rimontaggio che causò infinite pene a Sergio Leone. Ulteriore prova che il cinema è un fatto di sguardo, e non di racconto.
L’astrazione lirica del triviale. Una delle scene più belle del film. Patsy e la pasterella: