Italian Graffiti – Percorsi italiani nella (s)memoria cinematografica collettiva a cura di Massimiliano Schiavoni
Grande nome della commedia italiana dagli anni ’50 ai ’70, in realtà Luigi Comencini ha sempre avuto uno sguardo più intimo, più sobrio e delicato di molti degli autori della sua generazione. Il suo percorso artistico più personale, parallelo al cinema industriale a cui pur si concedeva tranquillamente, si muove su coordinate diverse, dagli esordi nel documentario e nella fiction di spirito neorealistico, alla costante attenzione per le tematiche dell’infanzia, che trovarono un’altra meravigliosa sede d’espressione nei suoi reportage televisivi. Voltati Eugenio, disponibile in dvd a partire dal 20 giugno per Medusa, è uno dei suoi ultimi film per il cinema. Uno dei suoi titoli meno ricordati, che merita assolutamente una riscoperta. Il punto di partenza del film è una dichiarata riflessione sui mutamenti del tessuto sociale e familiare a seguito dei vari tentativi di “rivoluzione culturale” che si susseguirono in Italia dal ’68 in poi. Protagonista è infatti una coppia di giovani genitori (Saverio Marconi e Dalila Di Lazzaro, molto brava) reduci da quegli anni, che con la disinvoltura tipica della loro generazione mettono al mondo un figlio, Eugenio, senza poi essere capaci di trovargli una collocazione nelle loro vite. Il bambino, così, vive in una quotidiana precarietà, spostato come un pacco postale dai genitori ai nonni, tutti più o meno incapaci di trovare quantomeno un linguaggio comune con cui rapportarsi a lui. Lo spunto di Comencini è perciò assolutamente morale, ma condotto per contro secondo un linguaggio-cinema cauto, accorto, rispettoso verso la realtà di ogni singolo personaggio. Senza giudicare, moralizzare, emettere sentenze.
Il disorientamento psico-sociale apportato da un periodo di cambiamenti nei profili antropologici, nel rapporto uomo-donna, in nuovi orizzonti professionali è reso innanzitutto da Comencini tramite un’estrema frammentazione del racconto. I flashback si susseguono uno dopo l’altro, senza una rigida scansione temporale, rivelando di volta in volta il punto di vista di tutti i personaggi, ognuno portatore di una verità accettabile (molto significativo è ad esempio l’afflato alla sincerità testimoniato dal padre di Eugenio), secondo un principio di assoluta relatività morale che da un lato appare una risorsa acquisita, dall’altro è generatore di confusione e disagio per chi ha bisogno di essere semplicemente amato, ovvero i bambini. Gli adulti, pare voglia dire Comencini, possono e devono modificare le proprie coordinate comportamentali verso migliori orizzonti civili. I bambini, al contrario, sono tutti uguali, in ogni epoca e luogo, eternamente mossi dalla loro istanza d’amore. Perciò qualsiasi codice morale che impone di non amarli non può essere un buon codice. Certo, verso il finale emerge un po’ più forte una tendenza di racconto, che parrebbe mostrare una maggiore severità nei confronti della figura della madre (si veda la sequenza dell’isterico rifiuto del ruolo di donna di casa). In realtà si tratta di un ulteriore disorientamento sociale, dovuto a nuove e giuste istanze emerse in quegli anni. Ogni periodo di transizione produce vittime dirette e indirette. In quegli anni, forse chi ne soffrì maggiormente furono i figli. Va reso pieno merito a Comencini di condurre un discorso sobrio e mai declamatorio, che alterna delicatezza e sguardo veristico, ancora secondo la lezione del neorealismo (si veda l’amicizia tra Eugenio e Guerrino, figlio di proletari). E aderendo, oltretutto, a una grammatica assolutamente libera, che non rinnega mai i principi-base dell’estetica classica, ma che sposa però un tipo di racconto aperto e mai definitivo. Un film freschissimo, di un autore quasi settantenne.
La “filosofia” di un amico di famiglia intellettuale: