Italian Graffiti – Percorsi italiani nella (s)memoria cinematografica collettiva a cura di Massimiliano Schiavoni
Luigi Zampa doveva avere qualche conto in sospeso con la sanità italiana. Dopo il successone di Il medico della mutua (1968), uno dei suoi titoli più fortunati e uno dei più popolari nella filmografia di Alberto Sordi, Zampa ritornò infatti più o meno sugli stessi temi con Bisturi, la mafia bianca, in cui sfogò un risentimento del tutto condivisibile sulla scarsa morale dei cosiddetti “baroni” della medicina, ma tramite strumenti confusi e decisamente poco convincenti. Recuperato dall’8 maggio in dvd per Cinekult, il film resta di un certo interesse quantomeno per dare uno sguardo d’insieme sulle opere del suo autore, mestierante di buona scuola che, come molti altri della sua generazione, spaziò un po’ in tutti i generi. Zampa apparteneva infatti a quell’artigianato industriale che, affondando le proprie radici nel rinato cinema italiano del neorealismo, costituì poi dagli anni ’50 alla fine dei ’70 il sostegno più solido della nostra produzione nazionale. Opere spesso dichiaratamente commerciali, che in molti casi declinavano temi e linguaggi di autori “maggiori” in chiave più popolare. Nella commedia all’italiana Zampa dette il meglio di sé, ma non disdegnò nemmeno il “cinema di denuncia”, che proprio negli anni ’70 conosceva i suoi maggiori successi di pubblico.
Bisturi, la mafia bianca vede la luce in un tale contesto, ma è sorprendente quanto il suo intento popolare superi qualsiasi ordine di estetica, coerenza e stile. Ci si può trovare dentro un po’ di tutto, in modo schizoide e difficilmente digeribile. Mosso dall’intento di suscitare uno sdegno totale, un accordo privo di ombre per far risuonare la propria tesi, Zampa ricorre alle convenzioni del cinema civile per esporre la sua requisitoria, e a numerosi altri espedienti dei generi più diversi per catturare il grande pubblico. Cinema semi-documentario e decisamente sadico, per via delle lunghe sequenze degli interventi chirurgici, che esprimono un insistito e immotivato realismo (si veddano i corpi aperti dei pazienti che addirittura si riflettono negli occhiali dei medici) condito di love stories appena accennate tra chirurghi delusi dalla vita e devote suorine di corsia, con clamoroso miscasting della bellissima Senta Berger condannata al velo. Non manca poi una buona dose di commedia all’italiana, a cui non si rinuncia nei brevi ritratti di alcuni pazienti, che non perdono mai l’occasione per enunciare una catena di luoghi comuni sulle condizioni sociali del nostro paese, senza poi dimenticare un breve cameo survoltato di Luciano Salce assolutamente gratuito nell’economia narrativa. Infine, il cinema di genere del tempo, spaghetti western compreso, che si palesa in uno stile spesso effettato e in battute stentoree, e che trasforma lentamente il racconto in un duello, ieratico e piuttosto alieno al contesto sociale che pure si vorrebbe narrare. I due chirurghi, quello cattivo e quello buono, si confrontano infatti, specie nel prefinale, con un linguaggio declamatorio, quasi teatrale, che permette a Gabriele Ferzetti ed Enrico Maria Salerno di gigioneggiare da par loro. Come se, da radiografia di malaffari tutti italiani, il film si riconvertisse a poco a poco in tragedia fuori dalla storia. Il fine ultimo è un conclamato sensazionalismo, che ricorre a tutti gli strumenti possibili per fare rumore, ma in fin dei conti senza scomodare più di tanto nessuno. Perché l’approccio di Zampa è anche acritico e populistico, a un passo dal qualunquismo. Non è l’unico film di quegli anni a mostrare questa inconsapevole esplosione stilistica. “Il fine giustifica i mezzi” era un principio diffuso. Non sempre, però, il fine si mostrava poi del tutto sincero.
Il confronto finale. Buon “pezzo d’attori” tra due istrioni, ma didascalico e teatrale: