Italian Graffiti – Percorsi italiani nella (s)memoria cinematografica collettiva a cura di Massimiliano Schiavoni
Nella sua idolatria verso il cinema di genere italiano, talvolta Quentin Tarantino non ha proprio tutte le ragioni, ma almeno in un caso il suo entusiasmo è da ritenersi fondato. Tra i suoi film preferiti spicca infatti Milano calibro 9, l’opera più importante di Fernando Di Leo, autore fortemente rivalutato negli ultimi quindici anni grazie alla riscoperta dell’exploitation italiano dei Sessanta e Settanta. Già reperibile in dvd, adesso il film ritorna in blu-ray a partire dal 9 maggio per Minerva/Rarovideo, all’interno di un cofanetto, “Di Leo Crime Collection”, che contiene anche La Mala ordina (1972), Il Boss (1973) e I padroni della città (1976). Se il fenomeno di cinema e costume del poliziottesco all’italiana da Milano calibro 9 e da una tendenza più generale d’inizio anni Settanta (Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri, La polizia ringrazia di Steno…) si è poi allargato a macchia d’olio, è pur vero che il film di Di Leo non è affatto un poliziottesco. E’ stato spesso definito un noir, e del noir in effetti conserva la macrostruttura, ma anche tale classificazione appare limitante. Innanzitutto non si tratta di cinema italiano di serie B. Per quanto all’epoca della sua uscita potesse apparire tale, la produzione è in realtà di livello medio-alto; non solo per il ricchissimo cast di attori, ma anche per l’evidente cura e la sobria eleganza del profilmico. Ma soprattutto lo stile e lo sguardo registico si tengono ben lontani dalla sciatteria che ben presto dilagherà in tutti i prodotti e sottoprodotti del genere negli anni successivi.
Al di là del contenitore-noir, Milano calibro 9 appare un incrocio tra pratiche cinematografiche comuni al suo periodo di appartenenza e un vero sguardo autoriale. Alla prima categoria appartengono certe convenzioni, visive e narrative, derivanti dallo spaghetti-western anni Sessanta: l’uso di zoom effettati, l’enfasi sui primi piani, spesso montati in tese sequenze di volti uno dopo l’altro, l’ipercaratterizzazione di alcuni personaggi (il Rocco di Mario Adorf è particolarmente irritante). Emergono inoltre alcuni elementi “estranei” all’economia del film, ma a loro volta debitori di tendenze dell’epoca. E’ ben evidente che a Di Leo interessa il film di genere in sé e per sé, eppure inserisce anche un personaggio didascalico come il vicecommissario Mercuri, che snocciola centoni populistici sulla situazione socio-culturale dell’Italia del tempo, inoltre, l’autore mette in bocca ad altri personaggi battute altrettanto retoriche sul conflitto tra vecchia e nuova mafia. Sono forse i riflessi di un “cinema civile” nato intorno a Damiani, Petri e Rosi. All’autore-Di Leo appartiene invece l’audacia poetica e stilistica, che si esprime nel tono crepuscolare, decisamente alieno alla retorica espressiva italiana, e nella stretta tecnica cinematografica che si esemplifica in una notevole sensibilità per l’inquadratura. Basti pensare ai contre-plongé estremi che Di Leo riserva al protagonista (un magnifico Gastone Moschin), di cui una, addirittura, in “soggettiva impossibile”, ovvero dal punto di vista di un morto; o a tutta la sequenza-capolavoro della sparatoria notturna in mezzo ai capannoni industriali. Poi, certo, campeggiano ovunque le bottiglie di J&B ed emergono evidenti limiti di sceneggiatura, soprattutto nella scarsa coerenza narrativa del personaggio di Barbara Bouchet. Ma Di Leo, soggettista e sceneggiatore forse poco rigoroso, mostra d’altro canto un rigore autoriale che, ancor più minimale e radicato nell’essenzialità degli elementi espressivi, può essere davvero rintracciato nel Tarantino di Jackie Brown.
Il trailer originale: