Italian Graffiti – Percorsi italiani nella (s)memoria cinematografica collettiva a cura di Massimiliano Schiavoni
Maria Pia Casilio ci ha lasciati qualche giorno fa. Simpatica caratterista dei nostri anni ’50, utilizzata per lo più per sfruttare il suo buffo accento aquilano, è stata la protagonista di uno dei più goffi e maldestri, ma allo stesso tempo leggendari casi di “trasparente” della storia del cinema italiano. Noto anche con il nome di “retroproiezione”, quella del trasparente è una tecnica funzionale, tra gli altri scopi, alla sovrapposizione di una vettura in finto movimento con fittizi paesaggi sul fondo, ripresi da immagini di repertorio. Nel 1954 la Casilio correva sulla moto di Nando Mericoni, nell’episodio più divertente di Un americano a Roma. Lei e Alberto Sordi correvano e sobbalzavano, ma restando palesemente fermi. Piccoli trucchi strapaesani di un cinema che sul piano industriale si riprendeva lentamente dopo la Seconda Guerra Mondiale, ma che restava ancora povero, e soprattutto molto più bonario e ingenuo del nostro cinema del decennio precedente.
Di Un americano a Roma, disponibile in varie edizioni dvd, si è detto tutto e il contrario di tutto. Tanto divertente quanto narrativamente debole e occasionale; tanto brillante la prova di Alberto Sordi quanto stilisticamente affrettato appare il film. In realtà l’opera forse più fortunata di Steno, fu girata e montata secondo coordinate variabili ed eclettiche, che corrispondono probabilmente alle mutevoli condizioni realizzative, ma vi si trovano anche brani di spiccata raffinatezza visiva rispetto al cinema comico del tempo. Soprattutto risulta sorprendente la tendenza a sfruttare la visività, gli strumenti precipui del mezzo-cinema, per finalità comiche. Basti pensare alla panoramica verso l’alto che, in soggettiva dell’anziano metronotte, svela Alberto Sordi nascosto dietro l’angolo con la mano in guisa di pistola. O, nell’ultimo episodio, tutto il gioco tra visibile e invisibile nella mise en abyme televisiva, con Sordi nudo che esce e rientra in continuazione dall’inquadratura. Poi, certo, l’eclettismo dell’opera si rivela nelle pagine dedicate totalmente al Sordi attore. Gigione e compiaciuto, alle prese con monologhi anche un po’ stancanti (il famoso monologo col piatto di pastasciutta, girato tutto in piano-sequenza con un solo ciak, e poi interpolato in montaggio con qualche inquadratura degli esausti genitori). Così come l’andatura narrativa del film, nel suo insieme, risulta involuta, occasionale, a suo modo bizzarra. La prima metà è svolta in linea cronologica, poi improvvisamente tutto il resto si svolge per flashback successivi, narrati dai vari personaggi. E gli episodi sono di qualità assai variabile. Tuttavia, all’interno dell’opera è rintracciabile un altro filone, al quale forse non è stato dato il giusto risalto. Un americano a Roma infatti appare fin dal titolo non tanto una commedia o un film comico, quanto un film-parodia. Il titolo scimmiotta Un americano a Parigi (in linea con la passione di Mericoni per Gene Kelly), e l’episodio del “burrone della Maranella” si trasforma nel suo finale in una presa in giro di L’asso nella manica di Billy Wilder. Un altro film di Wilder, Stalag 17, funge da modello per tutto il brano ambientato nel campo di prigionia tedesco. In pratica, per criticare l’esterofilia USA emersa nei nostri anni ’50, Steno si serve degli stessi cliché narrativi americani mettendoli in burla. Film facile e a pronta presa, quindi, ma costruito con finezze lievemente celate.
La parodia di L’asso nella manica: