Italian Graffiti – Percorsi italiani nella (s)memoria cinematografica collettiva a cura di Massimiliano Schiavoni
Agli albori di un fenomeno mediatico, elevatosi impensabilmente nell’arco di cinquant’anni a fonte demiurgica di grandi verità (?) sui destini umani, c’era un cantante destabilizzante per la moraletta cattolica dell’Italia del tempo. E c’era un ragazzo di 24 anni, contagiosamente simpatico, che andando oltre ai propri intenti si delineava come provocazione fisiognomica quasi dadaista. Un fenomeno fisico, innanzitutto, che cavalcando il rock in un paese ancora fermo a Nilla Pizzi o poco più mandava all’aria le convenzioni tramite il più elementare, primitivo dei mezzi: l’uso del corpo. Questo era Adriano Celentano nei primi anni ’60. Come tanti della sua generazione, anche Celentano utilizzò il cinema per incentivare e monetizzare ulteriormente il proprio culto presso il pubblico, ma Uno strano tipo (in uscita in DVD dal 3 aprile per Federal Video) non è un musicarello. Ne ripercorre vagamente il concept produttivo, col suo bel coro di grandi caratteristi comici un po’ in disarmo (l’immancabile Nino Taranto, Macario, Luigi Pavese) disposti intorno alla star musicale di turno, che intona i suoi successi per due o tre volte nel corso del film.
Ma l’impalcatura del film si sorregge in realtà su tutt’altri orizzonti. Siamo nella commedia slapstick, incredibilmente moderna per i suoi tempi, giocata su ritmi altissimi, trascinanti, inarrestabili. Modernità dovuta anche alla rielaborazione critica in sede di sceneggiatura di uno dei tòpoi più elementari, classici e antichi della tradizione occidentale: il sosia, lo scambio di persona. Che qui, però, si trasforma in gioco intelligente sul doppio dell’artista nella nascente civiltà di massa, in lotta quotidiana con la propria popolarità. Sembrerebbe una prima tappa di quello spudorato autocompiacimento che vedrà in seguito Celentano porre se stesso al centro di sentenziose e insincere elucubrazioni (vedere ad esempio Geppo il folle, 1978). In questo caso, invece, Celentano mette sì in scena se stesso, ma con una dose altissima di divertita autoironia, e con una freschezza attoriale mai più ritrovata. Brillantissimo nel ruolo di se stesso, ma addirittura superlativo nei panni del suo doppio: un personaggio disarticolato e “subumano”, vittima di una devastante balbuzie e di una tempesta di tic nervosi. Che raggiunge vette di geniale fregolismo quando il sosia si trova sul palco a dover imitare il vero Celentano. Il Celentano attore che interpreta un personaggio che deve imitare il vero Celentano. Sovrapposizioni semiotiche probabilmente solo “intuite” in sede di sceneggiatura, ma che comunque denotano una consapevolezza a monte della frantumazione a cui l’individualità stava andando incontro in una nascente civiltà delle immagini. Grande merito va riconosciuto a Lucio Fulci, regista e co-sceneggiatore con Vittorio Metz. Anzi, dopo averlo riconosciuto maestro dell’horror nostrano di serie B, forse è giunto il momento di rivalutare anche gli esordi comici di Fulci. Le sue commedie anni ’60 sono considerate prodotti di bassa lega, spesso ricalchi a sfruttamento massivo di opere maggiori. Uno strano tipo dimostra esattamente il contrario. Poche altre volte si è vista, in produzioni a basso budget di quegli anni, una macchina da presa altrettanto mobile ed espressiva. E Celentano? All’epoca, insieme alle canzoni, gli si poteva prospettare una brillante carriera quale Jerry Lewis nostrano. Peccato abbia scelto poi la strada del sermone.
Il “sosia” di Celentano in difficoltà nell’imitazione del cantante sul palco: