Italian Graffiti – Percorsi italiani nella (s)memoria cinematografica collettiva a cura di Massimiliano Schiavoni
In uno dei momenti più floridi del nostro cinema, compreso nel ventennio ’50-’60, la popolarità e l’apprezzamento per i nostri autori e attori erano così diffusi a livello internazionale che la formula di coproduzione, in particolare in ambito europeo, appariva una costante. Una cooperazione tra i maggiori paesi del continente in reciproca stima, tanto che non è raro trovare attori e attrici francesi, tedeschi, spagnoli nelle opere dei nostri autori più importanti. Oppure il contrario: film nati intorno al mito internazionale di un nostro primattore, catapultato in un contesto produttivo e creativo “altro” o, più semplicemente, anodino, tendente a un’idea di “universale” basata in sostanza sulla mancanza di una vera identità. Succede esattamente questo in La gran vita, recente recupero in dvd da parte di Medusa di un film sconosciuto ai più, che vede protagonista Giulietta Masina. In questo caso la coproduzione si mosse su un triplo livello: l’Italia fornì l’attrice, la Francia il regista (un Julien Duviviera fine carriera) e la Germania tutto il resto. Si tratta infatti di un progetto principalmente tedesco, a partire dal soggetto, il romanzo La ragazza di seta artificiale di Irmgard Keun, ambientato e girato in Germania, realizzato con maestranze e attori tedeschi. Tuttavia, sul piano produttivo i tre paesi furono tutti coinvolti tramite diverse case di produzione.
Con ogni probabilità il progetto nacque intorno alla stessa Giulietta Masina, nel momento di sua maggiore notorietà internazionale, subito dopo gli Oscar per La strada e Le notti di Cabiria di Fellini. Il film appare in effetti un tentativo di rimodellazione di un personaggio preesistente sulle linee dei ruoli più conosciuti e apprezzati dell’attrice. In un contesto molto diverso, non più proletario ma piccolo-borghese, ritroviamo più o meno lo stesso percorso e gli stessi tratti umani del sorridente “calvario” di Cabiria. Prima prostituta dal cuore d’oro e dalle tenere ambizioni, adesso Doris, segretaria dalla vita scombinata, in cerca di un vero amore disinteressato (ma interessato per lei: al desiderio d’amore Doris associa sempre anche l’ambizione di sposare un uomo benestante). Il film ha lo stesso andamento episodico felliniano; Doris inanella una serie d’incontri con uomini cinici, che la seducono e la sfruttano. E lei mantiene sempre intatto il suo stupore di fronte alla vita, quella fiduciosa gioia costantemente proiettata al futuro, al successivo incontro, ché magari “stavolta è quello buono”. I finali dei due film a confronto, sono in tal senso molto significativi. Al circo di passaggio che Cabiria incontra e festeggia dopo l’ennesima sconfitta, qui corrisponde l’ultimo incontro in mezzo alle baldorie per strada di un Capodanno. Ovviamente, gli esiti artistici non sono nemmeno paragonabili a quelli del film di Fellini. In La gran vita regna una “poetica di riporto”, annacquata, tirata via, così come nessuno dei personaggi maschili è mai memorabile (mentre ricordiamo benissimo Amedeo Nazzari e François Perier). Un’atmosfera ricorrente nelle coproduzioni meno riuscite, dove l’ispirazione più nota di un attore, e in questo caso anche di un nostro autore per interposto attore, è piegata a una sorta di sfruttamento massivo. Che disperde in una terra di nessuno tutte le identità coinvolte o evocate.