Italian Graffiti – Percorsi italiani nella (s)memoria cinematografica collettiva a cura di Massimiliano Schiavoni
Riproposto il 21 marzo in apertura del festival “Re-visioni” di Roma nella sua versione restaurata, in omaggio al centenario della nascita di Antonioni, L’avventura acquisisce adesso un’ulteriore ragione di recupero a seguito della recente scomparsa di Tonino Guerra, che di quel film a suo modo epocale fu sceneggiatore, come per diverse altre opere dell’autore ferrarese. Per rintracciare una volta di più spunti e ispirazioni intorno ai quali il poeta e il cineasta si trovarono ripetutamente affini nel corso degli anni. In tal senso, L’avventura (reperibile in dvd Medusa) si profila come una delle prove più compiute di tale convergenza d’intenti, quantomeno una delle più fresche, ancora lontana dai contorcimenti manierati di altre opere successive. Antonioni già aveva mostrato un’ispirazione nettamente diversa da quella di altri autori appartenenti alla stessa generazione: pur avendo caldeggiato e collaborato alla prima ondata neorealistica, i suoi primi lungometraggi palesano uno sguardo cinematografico molto personale, sia in ambito di grammatica filmica sia in ambito di racconto. Con L’avventura, però, il metodo di Antonioni sale per la prima volta alla ribalta internazionale, spaccando violentemente le reazioni di pubblico e critica. Al Festival di Cannes la giuria gli assegnò il Premio Speciale (quell’anno la Palma d’Oro andò a La dolce vita), mentre il pubblico lo ricoprì di fischi.
E’ necessario uno sforzo di diacronia per capire tali reazioni. Perché rivisto con gli occhi di oggi L’avventura soffre di invecchiamento relativamente rapido, e quel che al pubblico di ieri poteva sembrare sfida insostenibile alla pazienza, in cerca di profondità inaccessibili ai più, adesso appare invece come banale e anche piuttosto superficiale. Nell’indagare un nuovo disagio esistenziale prettamente borghese, fatto di desideri mutevoli, insicurezze, nevrosi, certezze rocciose per due minuti o poco più, Antonioni adottò un linguaggio nuovo (e questo è il pregio formale che a tutt’oggi rimane riconoscibile). Rifiuto della psicologia solida e tipizzata dei personaggi, che si profilano invece come canali sfrangiati di debolezze in transito. Rifiuto del racconto classico, a cominciare dal montaggio supportato da ampi carrelli e piani-sequenza fuori dalla logica industriale di sintesi narrativa, in favore di un rapporto altamente espressivo tra essere umano e paesaggio. Ovvero, la frattura interiore di personaggi che non sanno ascoltarsi si oggettivizza in un atteggiamento ostile e alienante del paesaggio e del contesto socio-culturale. I protagonisti si ritrovano infatti a condurre la ricerca dell’amica scomparsa in una Sicilia culturalmente lontana, spesso filmata nei suoi deserti naturali a seguito dell’urbanizzazione. Ma il racconto stesso viene lentamente disperso e abbandonato. Dell’amica scomparsa, da metà in poi, non interessa più a nessuno. Come dirà Claudia (una straordinaria Monica Vitti), “Tutto sta diventando maledettamente facile, persino privarsi di un dolore”. Dove sta l’invecchiamento, dunque? Sta proprio in queste battute di dialogo sentenziose, stentoree, che parlano sopra alle immagini in modo spudoratamente didascalico. Lungo il film i dialoghi si rarefanno gradualmente, eppure sembrano sempre troppi. Quell’eccesso di autocomprensione che, in varia misura, ritornerà spesso nella collaborazione tra Antonioni e Guerra.
Il finale. Sapiente alternanza nella scala dei piani. Paesaggio muto e alieno. L’essere umano muto e alieno a se stesso: