Italian Graffiti – Percorsi italiani nella (s)memoria cinematografica collettiva a cura di Massimiliano Schiavoni
Recuperato di recente in dvd da Medusa, oggetto a se stante nella filmografia di Monicelli, Caro Michele (1976) si delinea come un’opera di difficile definizione, e anche di impervia valutazione. E’ uno dei suoi film meno conosciuti e ricordati, benché a suo tempo avesse fruttato all’autore un premio per la regia al Festival di Berlino. E’ tratto da un’opera letteraria di Natalia Ginzburg, testo a sua volta un po’ refrattario alle trasposizioni cinematografiche, trattandosi di un romanzo epistolare. In più, e soprattutto, per una delle pochissime volte (forse l’unica in modo così marcato) Monicelli si tiene lontano dalla commedia, almeno per tre quarti del film. Certo, la commedia monicelliana ha spesso rasentato rovesci drammatici se non tragici, ma l’orizzonte narrativo si è sempre tenuto ben saldo all’interno del genere, spesso tramite svariate declinazioni dell’avventura picaresca. Stavolta invece l’intento globale resta magari sfocato e forse poco personale, ma con la commedia ha davvero poco a che fare. Cercando di restare fedele allo spirito del romanzo, Monicelli allestisce un raro tentativo di “film epistolare”, frammentario, narrativamente dispersivo, in cui le voci dei vari personaggi si mescolano in un coro stanco e dominato da un lancinante senso d’impotenza.
Tutte le lettere sono indirizzate a un invisibile Michele, rampollo di una famiglia alto-borghese disperso per l’Europa dei tumulti sociali e studenteschi anni ’70. Chi scrive è sua madre, le sue sorelle, i loro compagni. E, soprattutto, Mara. Una ragazza sbandata, variamente convinta di aver avuto un figlio da Michele. Monicelli dà una lettura volutamente parziale dell’opera della Ginzburg, ampliando notevolmente il ruolo di Mara e trasformandola in una protagonista sui generis, frantumata e rarefatta come tutti gli altri, ma piegata a uno scopo morale. Tramite Mara, infatti, Monicelli coglie l’occasione per un racconto di amarezze inaudite sull’ipocrisia borghese, sulla (in)volontaria separazione sociale degli “intellettuali”. Di Mara, unico personaggio “proletario”, quasi nessuno ricorda il nome. Chi se ne occupa, lo fa più per ipocrisia e senso del dovere che per vero affetto e comprensione. Nel suo calvario a suo modo picaresco su e giù per l’Italia, Mara mette a nudo i falsi valori di chi gli si dispone intorno, svelandone meschinità, chiusure e profondo disimpegno umano. Proprio gli “intellettuali”, coloro che si occupano astrattamente dei destini del mondo, sono in realtà dominati da incapacità e indifferenza. Solo Mara porta con sé un vero alito di vita. A dare bel risalto al personaggio è Mariangela Melato in una delle sue migliori interpretazioni. Ben diretta, “canalizzata”, indotta a razionalizzare la sua tendenza al sopra-le-righe in modo strettamente funzionale a un percorso umano. Ben alternando luci e ombre, dal momento che Mara stessa, nelle sue griglie mentali spesso omologate, non risulta del tutto incolpevole. Certo, è difficile stabilire, nell’incompiutezza del film, quanto sia frutto di una narrazione volutamente frammentata, e quanto dipenda invece da un’ispirazione poco compatta. Gli accentuati crepuscolarismi di Delphine Seyrig (la madre) puzzano più di artificio nobilitante che di vera ispirazione. E i personaggi secondari sono spesso incapaci di definirsi. Ma come radiografia sociale di quegli anni forse Caro Michele è da considerarsi uno dei migliori esempi nel nostro cinema mainstream anni ’70. Soprattutto perché mostra un grande impegno nel tenersi lontano dal giudizio.