Italian Graffiti – Percorsi italiani nella (s)memoria cinematografica collettiva a cura di Massimiliano Schiavoni
Strane commistioni cosmopolite accadevano durante gli anni del regime fascista. Cosmopolite, ovviamente, solo nella direzione dei paesi amici e alleati, ché anzi in quegli anni le linee politiche, sociali e artistiche nel nostro paese si mantennero su una sempre più severa autarchia. Oltre alla ben nota vicinanza tra Italia e Germania nazista, c’era anche la piccola e dimenticata Ungheria monarchica, che nella seconda guerra mondiale entrò nel conflitto al fianco dell’asse Roma-Berlino. Dall’Ungheria arrivava, anche, una solida e brillante tradizione teatrale sul versante della commedia, che già era ravvisabile alla fonte dell’alto modello lubitschiano e che, in parte, si riverserà nel cinema di Billy Wilder (uno dei suoi film migliori e più scatenati, Uno, due, tre! del 1961, è tratto esplicitamente da una commedia di Ferenc Molnàr). Nel cinema dei “telefoni bianchi” è così rintracciabile tutt’un altro filone, molto florido all’epoca, di commedie non solo ispirate a quella tradizione, ma in certi casi anche concepite come opere di coproduzione, in cui di norma l’ambientazione è conservata a Budapest e per i quali son chiamati all’opera registi ungheresi.
La fortuna viene dal cielo, recuperato di recente in dvd da Medusa, appartiene del tutto a questa tendenza. Alla regia troviamo Akos Rathonyi (il cui nome è ovviamente italianizzato nei titoli di testa), anonimo e asettico mestierante ungherese alle prese con attori italiani che incarnano tipi bidimensionali pertinenti alla morale fascista. Il tutto, però, ambientato a Budapest, inopinata capitale cosmopolita che, nella finzione, evita accuratamente qualsiasi specificità culturale. Cosa attrasse il regime fascista verso la “commedia ungherese”? Sopra ogni cosa il suo totale disimpegno, il suo ancorarsi a meccanismi narrativi del tutto fini a se stessi, universali e sì internazionali, ma per questo anche ben adatti a tenersi lontani da qualsiasi cenno vagamente realistico. In La fortuna viene dal cielo tale struttura è perfettamente rispettata. Un intreccio dei più elementari, una spilla preziosa rubata che coinvolge vari personaggi in una catena di equivoci, un sentimentalismo brillante, e (elemento tutto italiano) qualche improvvisa apertura verso il melodramma in cui si può dar sfogo al paternalismo di matrice fascista. Siamo appena un gradino al di sopra del teatro filmato solo grazie a qualche tenue inventiva nella scelta delle inquadrature, a poche ma inconsuete riprese in veri esterni, e soprattutto grazie alla presenza di Anna Magnani. Relegata in un ruolo secondario e prigioniera anch’essa, come tutto il resto del cast, di uno stile di recitazione scopertamente teatrale, ma comunque capace di iniettare in Zizì un lieve respiro di verità. Non tanto per l’estrazione sociale del personaggio (una canzonettista che, possiamo intuire da velate allusioni, arrotonda col mestiere più vecchio del mondo), quanto per la vitale e maliziosa caratterizzazione che la Magnani le riserva. Per il resto, si tratta di cinema più vecchio della sua età. Perché, mentre la condivisa “chiarezza narrativa” a tutti i costi produceva in America il coevo cinema di Ernst Lubitsch, in Italia non si era quasi più capaci di concepire un vero montaggio alternato (La fortuna viene dal cielo è un tripudio di tendine, in cui si perde totalmente la logica temporale delle azioni: alcune si svolgono in parallelo in una dimensione “impossibile”, un po’ come nelle attuali soap-opera nostrane). Il problema non sta in assoluto né nell’ideologia né nel disimpegno. Ma “semplicemente” nella tecnica.