Italian Graffiti – Percorsi italiani nella (s)memoria cinematografica collettiva a cura di Massimiliano Schiavoni
Il recupero di un film, a distanza di quarant’anni dalla sua realizzazione, può tradursi a volte nella giusta ricompensa per un intimo dolore autoriale. Così pare sia successo con l’avventuroso restauro di Un burattino di nome Pinocchio (1971) di Giuliano Cenci. Per l’occasione il film è stato riproposto al cinema Odeon di Firenze il 15 gennaio, alla presenza di un foltissimo pubblico, composto in buona parte anche da bambini. Come ha testimoniato l’autore, presente alla proiezione, “del film non si avevano più tracce, ne furono smarriti addirittura i negativi. Esisteva solo una copia-pirata rimasta in balia delle tv private negli anni ’80”. Poi, il ritrovamento fortunoso dei negativi e il lungo lavoro di restauro approntato dalla Cineteca Nazionale. La vicenda del film di Cenci costituisce una sorta di leggenda protrattasi nei decenni, tra grandi speranze e cadute rovinose, una cavalcata dolorosa che culmina nell’attuale riproposizione. “La mia speranza” dice l’autore “è che questo recupero sfoci in una riedizione in cofanetto-dvd. Sarebbe il giusto coronamento per un film sfortunato, costato anni di lavoro, che praticamente quasi nessuno riuscì a vedere nei cinema”. Alla fine degli anni ’60, infatti, Cenci riuscì a catturare l’attenzione di ben 52 finanziatori per un progetto di full animation inconsueto per il nostro cinema. Si trattò di una vera e propria cooperativa di produzione, messa insieme sul territorio di Firenze. Il film fu realizzato in cinque anni presso i laboratori di Coverciano, e, una volta ultimato, suscitò l’interesse di Goffredo Lombardo, tycoon della Titanus, per una distribuzione internazionale. Purtroppo i finanziatori, per imperscrutabili ragioni, rifiutarono di cederne i diritti, e il film si ridusse a una distribuzione nel circuito regionale, sparendo rapidamente dagli schermi.
Un primo dato: i disegni sono bellissimi. Meno il tratto dei singoli personaggi (con l’eccezione degli azzeccatissimi Gatto e Volpe), più il disegno dei paesaggi, dei fondali, degli spazi chiusi. Molti hanno giudicato il film di Cenci come la versione filmica più fedele del romanzo di Carlo Collodi. Non è vero in assoluto. Col contributo della voce narrante di Renato Rascel, che canta anche la sigla del film, Cenci cassa episodi normalmente assenti nelle varie versioni cinematografiche, ma risalta anche l’inspiegabile assenza di Mastro Ciliegia nell’incipit. E, soprattutto, laddove il film è più fedele al testo, mostra anche i suoi maggiori limiti. Ovvero nella resa quasi a ricalco dei dialoghi originali del romanzo, in tal senso eccessivamente letterari e per questo talvolta goffi e stentati. Emerge un’evidente ingenuità in buonafede di voler rendere il miglior servigio possibile al testo originario, che avrebbe meritato forse una rielaborazione più attenta in fase di scrittura (Cenci si assunse tutti gli oneri principali del film, compresa la sceneggiatura). E le musiche di Vito Tommaso sono invadenti e talvolta incongrue, con accenti da melodramma italiano anni ’70. Ma vi troviamo anche pagine di autentica poesia visiva, soprattutto nel volo notturno di Pinocchio a cavalcioni del colombo e in tutto l’episodio del Paese dei Balocchi, il più bello mai visto al cinema. Come pure si rileva una particolare perizia nella scelta dei fondali, modellati con bel piglio veristico su paesaggi squisitamente toscani. Cinque anni di lavoro che meritavano decisamente un destino migliore. In tal senso appare doveroso aderire con totale simpatia alla speranza di Cenci di una riedizione almeno in home video.