Italian Graffiti – Percorsi italiani nella (s)memoria cinematografica collettiva a cura di Massimiliano Schiavoni
Anomalo caso, quello di Tony Arzenta, che di recente è ritornato disponibile in dvd per 01. Di facile equivoco la sua collocazione estetica, soprattutto, poiché il film di Duccio Tessari vide la luce negli anni del rapido emergere di un ulteriore fenomeno commerciale e di costume per il cinema italiano, ovvero il “poliziottesco” in tutte le sue svariate declinazioni. Che, a modesto avviso, è forse il sottogenere di exploitation italiana ad aver meritato meno di tutti l’ondata di rivalutazione critica che ha investito negli ultimi quindici anni tutto il cinema italiano di serie B anni Sessanta e Settanta. Con buona pace di Quentin Tarantino, fervido esaltatore di tutto quel filone, il poliziottesco è stato sì occasione per l’emersione di ottimi autori misconosciuti (uno su tutti, Fernando Di Leo) e si è prestato a un ottimo sfoggio di tecnica cinematografica tout court, tra inseguimenti, sparatorie ed esplosioni, ma è stato anche il più tetro territorio d’espressione psico-sociale dell’era più buia, al momento, per l’Italia repubblicana. Anni di sussulti autoritaristici, di qualunquismo, di violenta sfiducia nelle istituzioni. Nei casi peggiori, singhiozzi populisticamente neofascisti di un cinema che rimesta volutamente negli istinti umani più deprecabili.
Tony Arzenta fugge da tutto questo, e soprattutto per un primo dato fin troppo semplice: il protagonista è un criminale stanco e sconfitto, non un poliziotto senza macchia e senza paura. Uno sconfitto in cerca di una vendetta meccanica e sempre meno convinta. Sentimenti che, sul volto giustamente impenetrabile di Alain Delon, sembrano derivare più dal polar francese che dalle nostrane violenze a buon mercato. Ma anche questo non basta. Tessari, sulla scorta di una sceneggiatura messa a punto da mestieranti altrove piuttosto beceri (Ugo Liberatore, Franco Verucci e Roberto Gandus), crea un proprio universo di totale resa e sconfitta, e scardina i generi a cui il film, di primo acchito, pare appartenere. Ritroviamo le solite, apprezzabili coreografie da cinema d’azione tra armi da fuoco e bruttissime Alfette, ma Tessari dilata le sequenze, fa un uso brillante, e inconsueto per il genere, di strumenti puramente cinematografici (inaudite profondità di campo, lente carrellate laterali di sospensione, spazi scenici gestiti su tonalità di angoscia e alienazione) e ricorre al dialogo con una straordinaria parsimonia espressiva. E così facendo colloca il racconto in un’atmosfera rarefatta, dove niente ha più senso, dove gli stessi rapporti di forza tra i vari personaggi, le dinamiche criminali dell’organizzazione, i nessi logici della narrazione non hanno più importanza. Non a caso i brani meno riusciti sono proprio le lunghe chiacchiere dei “capi” intorno ai tavoli, dove si tenta di ricucire gli strappi narrativi derivati da un racconto così sospeso. Ma, per l’appunto, a Tessari interessa altro. L’evocazione di un mondo in cui la violenza ha compromesso tutto, e in cui i personaggi galleggiano come prigionieri del proprio destino. Un film che finisce per tenersi lontano dall’ideologia più o meno cosciente sottesa a buona parte del poliziottesco all’italiana. Ne sposa il pessimismo, ma riesce a forzare le strettoie della convenzione scavalcando l’ambito più banalmente sociale verso un impensabile pessimismo esistenziale. Chissà se Michael Mann, tanti anni fa, non abbia dato casualmente un’occhiata a Tony Arzenta.
Il trailer originale: