Italian Graffiti – Percorsi italiani nella (s)memoria cinematografica collettiva a cura di Massimiliano Schiavoni
Vittorio De Seta ci ha lasciati la settimana scorsa, e ci lascia un’eredità cinematografica tutta da riscoprire. Figura un po’ misconosciuta (almeno da parte del grande pubblico) della storia del nostro cinema nazionale, ma molto amata da cinefili e appassionati, De Seta ha sempre scelto consapevolmente di tenersi lontano dalle ribalte, percorrendo una strada creativa tutta personale che si è concretizzata in solo quattro lungometraggi di fiction distesi in circa cinquant’anni d’attività. Parlare di lui riferendosi a “filmografie” o concetti cataloganti di uso comune è un po’ restrittivo e sostanzialmente sbagliato, poiché la sua scarsa prolificità è dovuta anche a un percorso di vita personale che lo ha condotto a scelte radicali (per anni si è dedicato alla vita dei campi, lontano dal cinema). Vittorio De Seta non è stato “solo” un artista. E’ stato un essere umano di idee forti e coerenti, periodicamente coinvolto in questioni cinematografiche.
Sotto vari aspetti tutto ciò emerge fin dalla sua opera prima di fiction, quel Banditi a Orgosolo (reperibile in dvd Medusa) che per il grande pubblico costituisce forse l’unica sua opera davvero ricordata. Venendo da esperienze di documentario su realtà antropologiche in via di sparizione o dimenticate dalla società (due di essi, già ambientati in Barbagia) e prediligendo nettamente tale approccio narrativo, De Seta tentò in Banditi a Orgosolo una prima sintesi tra la sua ispirazione più spontanea e il racconto di fiction. L’interesse antropologico si riconferma, e il fare cinema si trasforma in esperienza di vita. De Seta si pose infatti alla narrazione delle condizioni di vita di pastori sardi, a costante rischio di deragliamento verso il banditismo, sulle colline del Supramonte. Supportato da una troupe di soli due elementi, visse a diretto contatto con le comunità locali, e fece ricorso a veri pastori per incarnare i protagonisti della sua storia. A questo, però, De Seta giustappose un approccio robustamente finzionale. La storia di Michele e Giuseppe, pastori casualmente invischiati in una vicenda di banditismo, si fonda infatti su una solida struttura quasi da noir, dettata da tempi serrati e vera suspense. Gli elementi di narrazione del reale, invece, sono veicolati tramite due canali diversi: da una parte la sospensione della narrazione per brevi pagine di documentazione antropologica (con effetto, in diacronia, di un certo folclorismo), dall’altra l’inserimento piuttosto fluido di tali elementi all’interno del racconto finzionale. Riti di vita contadina da un lato, oggetti e animali trasformati in causa d’azione dall’altro. Il tutto sorretto da riprese di altissimo rigore stilistico, che a loro volta evidenziano uno spiccato gusto per l’epica. Basti pensare a tutti i primi piani, talvolta un tantino ieratici e magniloquenti, che ci restituiscono volti scolpiti nella pietra in tutta la drammaticità di uno scontro quotidiano con la natura. Narrazione, riprese e montaggio vagamente memori del primo cinema di Pietro Germi. Certo, emerge talvolta un eccesso di schematismo, e la struttura oscilla tra tragedia, in cui il destino è segnato fin dalle prime battute, e film a tesi (il finale è in tal senso significativo). Ma Banditi a Orgosolo vive di altro, vive di sguardo e di ardimento, di cinema inteso come sfida. E testimonia, soprattutto, l’approccio alla vita di un uomo, che non ha mai fatto della produzione artistica l’unica sua ragione di vita. Uno spirito libero, si direbbe. Più semplicemente, un uomo generoso.
Il potente incipit, di taglio documentaristico-antropologico: