Italian Graffiti – Percorsi italiani nella (s)memoria cinematografica collettiva a cura di Massimiliano Schiavoni
Da sempre voce fuori dal coro rispetto alle tendenze italiane più note e vulgate del cinema a lui contemporaneo, in realtà Ermanno Olmi non si è mai fieramente e polemicamente distaccato da ciò che i suoi colleghi producevano. Più semplicemente, ha seguito se stesso, ha compiuto un proprio percorso, sobrio e lontano dai riflettori (pur finendoci poi sempre più spesso, dato il crescente apprezzamento internazionale per le sue opere). Così, da anni gli è stato attribuito lo status di Maestro, ma in virtù di una linea creativa a suo modo appartata, frutto di un’ispirazione praticamente sempre personale e lontana da qualsiasi idea di compromesso. Un caso abbastanza raro per il nostro cinema, che ha prodotto anche veri e propri miracoli, come l’apprezzamento ecumenico per L’albero degli zoccoli (1978) o La leggenda del Santo Bevitore (1988) e addirittura gli incassi esorbitanti di Il mestiere delle armi (2001), che vide un’imponderabile convergenza di critica e pubblico per un film “difficile” e del tutto alieno a logiche commerciali. Confortanti miracoli a dimostrare che la coerenza con se stessi, una volta nei secoli, può anche pagare in tutte le direzioni.
Il posto, reperibile in dvd 01, è il suo secondo film. Venuto dal documentario a tema “industriale”, Olmi trasportò questa sua ispirazione in un’opera di fiction che affronta, con approccio mai facilmente polemico o sociologico, uno dei nodi più drammatici della società italiana agli albori degli anni ’60: l’inurbamento più o meno forzato, la graduale sparizione della cultura contadina, e più in generale l’incipiente omologazione guidata da nuove logiche produttive e conseguenti nuovi profili antropologici. A ben vedere, lo spunto di partenza accomuna Il posto a molte opere coeve, e anche alle tendenze più specificamente italiane come il neorealismo (ormai già lontano nel tempo) o le diversificate forme di commedia. Ma è un apparentamento solo tematico. Olmi non sceglie griglie formali precostituite, costeggia il grottesco (soprattutto nella seconda parte, e nella parentesi meno felice in cui si raccontano per brevi frammenti le vite dei vari colleghi) ma si tiene su uno sguardo al contempo asciutto e partecipe, rasentando in più momenti l’approccio documentaristico. Ciò è evidente soprattutto nelle minuziose sequenze in ufficio, in cui la riorganizzazione del materiale narrativo in fiction è minima e sottile, tutta fondata sulla reiterazione di gesti mai distorti enfaticamente in grottesco corrivo. E, soprattutto, Olmi si fa forte di strumenti puramente cinematografici, come la profondità di campo ad accentuare isolamento e angoscia (vedi l’esaltazione degli spazi aziendali, i corridoi dechirichiani dell’edificio, e la sequenza della festa di Capodanno in azienda, con la prospettiva sconfinata della sala da ballo). Ovvero, l’inurbamento e la teorica crescita esponenziale delle possibilità d’incontro sociale producono in realtà solo l’incontro forzato di migliaia di solitudini, tutte strutturate su nuovi modelli omologanti, imposti dall’alto. Una vita sempre più programmata, e sempre più lontana da quell’approccio spontaneo di cui Domenico, il giovane protagonista, è testimone nella sua timida ingenuità. Alienazione? Forse sì, ma senza la pesante evidenza, verbosa e didascalica, di chi fa di quella stessa alienazione un discorso fin troppo consapevole e compiaciuto. Leggero, quasi impalpabile, ma dolorosissimo nel profondo.
Festa di Capodanno in azienda. La desolazione di dinamiche sociali forzate: