Italian Graffiti – Percorsi italiani nella (s)memoria cinematografica collettiva a cura di Massimiliano Schiavoni
Grazie a un’ennesima, meritoria iniziativa della Fondazione Cineteca Italiana di Milano, rivive sullo schermo un’importante testimonianza artistica di un fondamentale passaggio storico-estetico del nostro cinema. Si tratta di Rotaie di Mario Camerini, restaurato dalla Fondazione e riproposto il 2 novembre scorso al Festival Internazionale del Film di Roma. Opera miliare non tanto per un’eccelsa qualità artistica, quanto perché unanimemente considerata tra le più valide testimonianze della rinascita del cinema nazionale dopo la crisi della seconda metà degli anni ’20. Al Festival di Roma si è avuto l’onore di assistere alla sua probabile prima proiezione in versione muta, accompagnata da musica dal vivo. Il film di Camerini, infatti, si colloca proprio sul crinale del passaggio dal muto al sonoro; di esso ne furono approntate due versioni. La prima muta (1929), e la seconda sonorizzata l’anno dopo, ma non si hanno notizie certe di proiezioni pubbliche nella sua prima versione. E la sonorizzazione, tuttavia, riguardò soltanto i suoni d’ambiente e il commento musicale. I dialoghi restarono muti, supportati da scarnissime didascalie.
Mario Camerini fu tra i maggiori esponenti del cosiddetto “cinema dei telefoni bianchi”, ovvero del cinema di regime che in misure diverse rispondeva a canoni più o meno enunciati e richiesti dalle linee direttrici della cultura fascista. Rotaie appartiene, anche in tal senso, a un periodo di transizione. In esso si ravvisano infatti notevoli libertà espressive, che andranno gradualmente scemando nel cinema sempre più preconfezionato degli anni ’30. E’ evidente uno spiccato eclettismo stilistico, una sorta di exploitation ante litteram, condotta sui canoni internazionali più in voga. E’ cinema che vive poco di luce propria, che si ancora a modelli non autoctoni, e che tuttavia è capace di rielaborarli in un prodotto nuovo e originale. La cifra autoriale si tramuta per l’appunto nel patchwork, nella rilettura “proto-postmoderna” di solide convenzioni. Possiamo distinguere, infatti, tre movimenti nel film, differenziati da notevoli oscillazioni stilistiche: dall’incipit (la parte migliore) girato secondo l’enfasi simbolica di dettagli, volti e ombre tra espressionismo e Kammerspiel tedesco, al nucleo centrale che si rifà a modelli di commedia brillante americana, sia pure declinata in melodramma, alla conclusione che sposa curiosamente gli strumenti del cinema sovietico militante e edificante a una nuova morale fascista in via di emersione. Questa, forse, resta la peculiarità storicamente e culturalmente più interessante. Là dove il cinema è piegato a scopi non solo estetici, dove si tenta di piegarlo a strumento di tendenza culturale, i mezzi espressivi finiscono un po’ per somigliarsi anche tramite le ideologie più lontane. Il finale, infatti, mostra una ritrovata felicità, frutto da una parte di una “sovietica” redenzione tramite il lavoro operaio, dall’altra dell’accettazione di una morale classista e borghese, in cui le ambizioni sfrenate sono negate in favore di una pacata ideologia familiare, con la moglie che aspetta trepidante il marito all’uscita dalla fabbrica. Ovvero, il modello culturale fascista a cui il regime si ancorerà di lì a poco. Quel che resta, comunque, è un interessante reperto di un’epoca cinematografica ambigua, tra libertà e convenzione, tra gusto transeuropeo e orgoglio nazionale. Ancora fertile, perché transitorio.