Italian Graffiti – Percorsi italiani nella (s)memoria cinematografica collettiva a cura di Massimiliano Schiavoni
Il neorealismo s’impasta, si contamina, perde le proprie prerogative anno dopo anno. Nel 1960, anno di produzione di La lunga notte del ’43, a parlare di neorealismo si rischia di esser già presi per attardati. E il nostro cinema va incontro a mutazioni, nuovi linguaggi, (in)consapevoli contaminazioni. Dopo il cinema sporco che si scontra in presa diretta con la realtà fino a farsi male, pian piano in Italia ci si ricompone, ci si “acconcia” per fare cinema secondo linee ben preordinate, la rinascente industria garantisce strumenti più ricchi e meno aleatori, e la realtà può essere così meditatamente rielaborata in senso narrativo. Non ultimo, emerge la necessità di raccontare il passato per interpretare il presente, in modo evidente e a pronta presa. Declamazione, didascalismo, sociologia talvolta facile e qualunquista. Nel percorso creativo di Florestano Vancini tale evoluzione emerge con grande evidenza. Dopo aver vissuto gli anni di formazione cinematografica a stretto contatto con le poetiche del neorealismo, Vancini esordisce con La lunga notte del ’43 (disponibile in dvd Medusa) per documentare, innanzitutto, episodi storici rapidamente rimossi. Tuttavia, il suo linguaggio è già ampiamente contaminato. Ispirandosi a un racconto di Giorgio Bassani che narra di una rappresaglia fascista, avvenuta a Ferrara a seguito del clima da guerra civile provocato dai fatti dell’8 settembre 1943, Vancini si sofferma più sui personaggi e meno sugli eventi. Più sul melodramma, infelicemente enfatizzato in un personaggio femminile centrale, e meno sull’impulso alla documentazione. Più sulla cesellatura di ordinate e ammirevoli inquadrature (molto è ricostruito in studio, altro elemento di notevole distacco rispetto alle pratiche neorealistiche) e meno sulla febbrile espressione di un’urgenza narrativa.
Pur mirando ancora a una certa coralità di racconto, l’autore si sofferma in realtà su tre personaggi, avviluppati in un triangolo amoroso da melodramma che s’impasta al contesto storico. Mentre si rilevano apprezzabili finezze psicologiche, soprattutto nel ritratto del debole ex-fascista recluso alla finestra di casa dalla sifilide (un ottimo Enrico Maria Salerno) d’altro canto emerge con pesante evidenza l’intenzione di cucire addosso al personaggio di Belinda Lee un’esemplare “presa di coscienza”, forzosa e scesa dall’alto, in linea con le nuove forme di cinema militante che troverà la sua espressione più compiuta nei nostri anni Settanta. Così come è più che evidente l’intento polemico nei confronti della rapida rimozione storica, e annesso trasformismo tutto italiano, che permette, già agli albori degli anni ’60, il perfetto reinserimento sociale dell’ex-picchiatore Gino Cervi. Il finalino, posticcio e affrettato, con salto dagli anni ’40 ai ’60, è in tal senso significativo. Sovrascritto, didascalico, un tantino demagogico. Ma, per l’appunto, rispetto al nostro cinema degli anni ’40 le esigenze sono cambiate. Adesso è tempo di polemica storica, di riflessione rabbiosa sulla rimozione collettiva di una tragedia nazionale, sulla facilità con cui in Italia si dimentica e si tira a campare. E’ tempo di cinema “di contenuti” e messaggi. La lunga notte del ’43, in tal senso, appare un ibrido. Molto curato nella scelta delle inquadrature, popolare nell’approccio melodrammatico, che non disdegna di ricorrere alla figura dell’eroe prode e bidimensionale (Gabriele Ferzetti), militante nella sostanza.
Grande fotografia in bianco e nero per una notte di terrore nel coprifuoco della Repubblica di Salò: