Italian Graffiti – Percorsi italiani nella (s)memoria cinematografica collettiva a cura di Massimiliano Schiavoni
Scusate il ritardo: Troisi operò una scelta tra le più felici del nostro cinema per il titolo del suo secondo film. Banalmente, ritardo rispetto alla sua prima formidabile opera, Ricomincio da tre (1981), che raccolse uno strepitoso successo nazionale lasciando forse disorientato Troisi stesso. Ma il ritardo, soprattutto, è quello intimamente fisiologico del personaggio che Troisi ha interpretato, senza mai smettere di rifinirlo, in questi suoi due primi film. Un ritardo, quello del personaggio, nei confronti della vita, dei ritmi che la vita richiede, delle attenzioni, cure, responsabilità che le persone care si attendono. Nonostante spesso si siano voluti individuare dei limiti nella regia e nella composizione dell’inquadratura nel Troisi autore, Scusate il ritardo (reperibile in dvd Cecchi Gori Home Video) è probabilmente l’opera più compatta, riuscita, ispirata di una filmografia dolorosamente breve. Vi ritroviamo un impianto ancor più minimale e sottovoce rispetto al film d’esordio. Costruito su poche, lunghissime sequenze, girato quasi tutto in interni, con rare incursioni all’esterno spesso infelici (specie nelle parentesi in riva al mare), il film si presenta come un problematico incrocio tra evidente regia rudimentale e poetica personale. Sì, perché se il Troisi dietro alla macchina da presa si distingue per un approccio che più elementare non si può, è pur vero che, per scelta autoriale, discutibile o meno, il Troisi regista deve star dietro alla preminenza totale del Troisi attore. L’attore e il suo personaggio si trasformano in poetica cinematografica, e cercano di legarsi a vere esigenze narrative e cinematografiche tout court.
E’ un passo avanti rispetto a Ricomincio da tre, ma anche una conferma, perché in nessuna delle sue opere Troisi si è adagiato totalmente sul proprio personaggio, bensì ha sempre cercato di interpretarlo come prodotto di un suo tempo, di una sua epoca, di un suo contesto socio-culturale. E, massimo pregio, ha sempre cercato di raccontarne le sofferte malinconie nello scontro con una realtà per lui sfuggente e dolorosa. Nel primo film era il maschio italiano in difficoltà con le “nuove donne” agli inizi degli anni Ottanta. Qui, chiudendosi ancor di più nel guscio della realtà socio-familiare partenopea, Troisi racconta di una lieve prigionia apatica, rispetto alla quale Vincenzo, questo il nome del protagonista, tiene un significativo rapporto ambivalente. Ben accomodato nella sua apatia che lo mette al riparo da qualsiasi responsabilità, ma al contempo inquieto prigioniero di quella medesima condizione, Vincenzo è incapace di esprimere, o magari provare, veri sentimenti e di legarsi davvero al mondo. Uno dei tanti tratti psico-sociali pertinenti a un’epoca “afasica”, per l’appunto, come sono stati gli anni Ottanta italiani. Il racconto procede per lunghi blocchi, tanto che risulta quasi assente una reale continuità narrativa. Ma la direzione dei singoli blocchi, sul piano prettamente attoriale, è da applausi. Valgano per tutto il film le sequenze tra Troisi e Lello Arena, nei panni di un amico mollato dalla ragazza, che travolge il protagonista in sfoghi e pianti interminabili. Geniale, veramente geniale la scrittura di quei brani. Che, sì, magari faranno fatica a inserirsi in un vero e compatto progetto filmico, ma lasciano a bocca aperta per la riuscita comica, per la scelta sapiente di quegli tempi lunghi spesso considerati, nell’universo di Troisi, poco cinematografici. Quando invece la forza comica di quei brani risiede proprio nella ripetizione, nella loro iperbolica durata.
“Strano” e “brutto” e le loro infinite interpretazioni: