Italian Graffiti – Percorsi italiani nella (s)memoria cinematografica collettiva a cura di Massimiliano Schiavoni
Strano film La spiaggia di Alberto Lattuada. Strano impasto di convenzioni anni Cinquanta, arditezze inconsuete per l’epoca, apprezzabile volontà di attaccare la mentalità neo-borghese di un’Italia appena agli albori del rilancio economico-industriale, e gusto per il melodramma. E non solo. Anche gusto per il rapido bozzetto sociale, per una pur tenue militanza, e, non ultimo, per la ricerca formale. Lattuada gira il film subito dopo il successo stratosferico di Anna (1952), e anche in questa occasione resta ben ancorato a un’idea di cinema sostanzialmente commerciale, fatto di melodramma, di donne perdute in cerca di redenzione, di uomini dal cuore d’oro (il solito Raf Vallone), e dominato da toni sovraccarichi in linea col cinema americano del tempo. Tuttavia, a sorprendere è soprattutto la struttura narrativa, che lascia anche un po’ interdetti. Perché da un lato si percepisce il tentativo di frammentare il racconto secondo linee eccentriche rispetto alle convenzioni coeve, dall’altro si rimane un po’ perplessi per la riduzione del coro mondano a macchiette bidimensionali, a rapidissimi schizzi che con fatica si compongono in un credibile (e duraturo) quadro sociale.
La diacronia, in fondo, resta il problema sostanziale di La spiaggia. Il Lattuada degli anni Cinquanta appare infatti uno degli autori peggio invecchiati della sua generazione. Di gran successo all’epoca, anche piuttosto scaltro nel captare i nervi scoperti di quell’Italietta (La spiaggia provocò addirittura un’interrogazione parlamentare e un divieto ai minori… mon Dieu), in realtà il suo cinema di allora risulta legato a modi espressivi rapidamente superati. Resta chiaro a tutti che le intenzioni sono più che nobili, tenute ben salde in una fiera difesa dei puri e del possibile riscatto sociale per gli emarginati (qui trattasi di prostituta con figlioletta, messa al bando dall’ipocrita società benestante di una spiaggia d’estate), ma l’apparato narrativo si fa forte di una definizione per categorie macroscopiche dei vari personaggi che popolano quella società mondana, falsa e pettegola. E, per converso, la donna perduta è incarnata con tutti i canoni, i sospiri e i pianti improvvisi dell’eroina sventurata, a cui non giova l’interpretazione manierata di Martine Carol. In più, l’impostazione drammaturgica del film segue (un po’ incredibilmente, visto che il film è ambientato al mare) i canoni del teatro filmato, soprattutto nelle lunghe sequenze delle cene all’hotel. Ogni inquadratura un bozzetto ben pettinato di questo o quel nucleo familiare, sempre in ripresa frontale, come in un film di Mario Mattoli tratto da Scarpetta. Il maggior interesse, tuttavia, risiede nella sua veste formale. La spiaggia (reperibile in dvd 01) fu uno dei primi film in Italia ad avvalersi del sistema Ferraniacolor, subito dopo la sua messa a punto su larga scala in Totò a colori (1952) di Steno. Al di là della novità tecnica in sé, che già costituiva interesse per il pubblico dell’epoca, è ravvisabile in Lattuada un tentativo di piegare il nuovo strumento espressivo a una propria lettura. Si vedano certe lunghe prospettive sul litorale, che utilizzano i colori forti e senza ombre del Ferrania per comporre vedute di stampo pittorico. Se, potremmo dire, negli interni il film si piega al teatro filmato, negli esterni “cerca” cinema. Cinema invecchiato, dunque, senz’altro. Ma che nel suo presente sfondava verso un relativo futuro.