Italian Graffiti – Percorsi italiani nella (s)memoria cinematografica collettiva a cura di Massimiliano Schiavoni
L’alienazione prima che diventasse maniera e verbosità conclamata negli anni Sessanta, ovvero l’alienazione prima che fosse “nominata”, definita, isolata come fenomeno di massa e lettura modaiola di una condizione psico-sociale: così potremmo riassumere il senso di un’opera come Il grido (reperibile in dvd Medusa) di Michelangelo Antonioni, film apprezzato già all’epoca della sua uscita (vinse il Gran Premio della Critica al Festival di Locarno), e ovviamente non moltissimo dal pubblico, che ritrovava luoghi e retoriche piuttosto diffuse nel cinema italiano anni Cinquanta, ma declinate secondo una lettura assai diversa dalle convenzioni espressive in voga. Detto senza troppi giri di parole, l’Antonioni degli esordi è preferibile alla sua produzione più nota degli anni Sessanta. Ne Il grido, in tal senso, risulta molto interessante l’impasto tra retoriche espressive attinenti al cinema nazionale dell’epoca, e sguardo personale Antonioni prende le mosse infatti da luoghi narrativi piuttosto definiti: la campagna italiana, ancora lontana dall’omologazione che inizia a emergere nelle grandi città, protagonisti proletari in lotta quotidiana contro una realtà che fa fatica a delinearsi per “borghese”, le difficoltà della ricostruzione socio-economica… Ma l’autore parte da queste premesse per elaborare invece una prima riflessione sul disorientamento individuale di fronte a una società in evoluzione, e per allestire un suo primo viaggio senza scopo (tema che ritornerà in L’avventura, in Zabriskie Point, in Professione reporter, sotto varie chiavi in tutte le sue opere successive). Un viaggio che si disperde a poco a poco, così come si disperdono e si slabbrano i confini del protagonista Aldo in quanto individuo.
Spinto da una delusione amorosa e da un disagio non meglio definito, Aldo rifiuta in realtà le nuove coordinate sociali in via di emersione. Il suo è un disagio in stretta relazione con i mutamenti in atto negli ambienti circostanti: alle fabbriche e ai colori artificiali di Deserto rosso, ne Il grido corrispondono stazioni di benzina, cartelloni pubblicitari, rotoli di cavi elettrici. Antonioni lavora insomma su un piano già personale, in cui lo strumento principe di ripresa è il piano-sequenza e in cui è possibile notare una prima riflessione estetica sui rapporti tra individuo e contesto. Basti pensare all’utilizzo delle prospettive, limitate o “infinite”, sulla campagna padana, che isolano e frantumano l’individuo in un vuoto indistinto. Lo stesso può dirsi per i rapporti tra i personaggi, tutti quanti accomodati in una (in)quieta sconfitta, espressa tramite dialoghi talvolta involuti e capziosi (soprattutto nella sequenza dell’addio tra Alida Valli e Steve Cochran), altre volte di felice intuizione, in quel territorio mediano tra consapevolezza e occultamento del proprio dolore. Antonioni riesce insomma a condurre un discorso “sociale” senza perdersi dietro ai didascalismi, alle insistenze, alla vera e propria militanza. Decide di utilizzare il mezzo-cinema per evocare (e non “narrare” in senso stretto) la dissoluzione di un mondo e dei suoi valori sotto i colpi di un epocale mutamento antropologico, soffermandosi sul conseguente, dolorosissimo disorientamento dell’individuo. Una prima “dissoluzione dell’essere umano”, tema a cui Antonioni dedicherà scopertamente tutto il resto della sua carriera.
Il trailer originale: