Italian Graffiti – Percorsi italiani nella (s)memoria cinematografica collettiva a cura di Massimiliano Schiavoni
C’è stato un momento in cui la Rai faceva davvero il suo dovere. Storicamente si tratta di uno dei periodi più bui per il nostro paese: gli anni ’70 della società civile in bufera, del terrorismo, dell’austerity e della gente che non esce più di casa. Di contro, la televisione pubblica fa cultura, incredibilmente, e con una varietà espressiva mai più ripetuta. Proprio in quegli anni la RAI si lancia anche nella produzione cinematografica, concedendo piena libertà artistica agli autori. Tra i frutti di tale politica illuminata (anzi, non illuminata: semplicemente l’ente statale assolve ai compiti prescrittigli) c’è una Palma d’Oro a Cannes nel 1977 per un capolavoro, Padre padrone dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani. E’ possibile immaginare oggigiorno un’opera finanziata dalla tv che si presenti con una tale arditezza di sperimentazione estetica, pur dentro il solco di una solida narratività? Meglio lasciar perdere.
Padre padrone, edito in dvd 01, è uno dei pochi veri capolavori di un decennio italiano ancora fertile, ma già travagliato, perlomeno dalla sua metà in poi, dalle avvisaglie di un’incipiente crisi produttiva e creativa generalizzata. I Taviani appartengono a una generazione nuova, accomunati anagraficamente a Bertolucci, Bellocchio, Orsini (loro collaboratore in coregia per i primi film). Autori diversi tra loro, ma tutti quanti in cerca di nuove chiavi espressive, in fuga dalle convenzioni ormai abusate del nostro cinema. Padre padrone è probabilmente il loro più alto raggiungimento. Partendo da un caso letterario che ebbe eco in tutto il mondo, l’omonimo romanzo autobiografico di Gavino Ledda, pastore sardo analfabeta divenuto professore universitario di glottologia solo grazie a una caparbia volontà, i Taviani si muovono secondo coordinate estetiche del tutto personali. Via i didascalismi (che pure una tale materia poteva portare con sé), via il racconto di fatti e troppe parole. E largo, invece, al rapporto mitico tra uomo e natura, tra filialità e paternità, tra natura e cultura/e. Tra, soprattutto, silenzio e parola, laddove la conquista della parola si configura come graduale conquista di se stesso. Il racconto procede per ellissi e rapsodie, seguendo un tracciato di tempo soggettivo pur nella conservazione della linea cronologica. La prima parte resta la più bella: la solitudine del bambino, solo nelle immensità silenziose dei monti sardi, è narrata quasi con secco approccio documentaristico, attento a riti e ritmi della vita pastorizia, ma sempre riscattato dal lirismo dello sguardo. La seconda parte, invece, quella della presa di coscienza, cede a un passo più tradizionale e didattico, forse per andare incontro agli scopi della committenza televisiva. Ma sempre tenendosi dentro una composizione “alta” (vedi la sequenza sulla torre di Pisa, in cui Gavino “si appropria del mondo”). Omero Antonutti, nei panni del “padre padrone”, dette una prova magistrale e commovente. Commovente, sì, perché nel padre-mostro che in famiglia tutto domina, soffoca e inghiotte, Antonutti lascia respirare un vero essere umano, a sua volta prigioniero di schemi culturali al di sopra di lui. Incarnazione contingente di una tragedia mitica, psichica ed eterna. L’uccisione ideale del padre, e la lotta contro ogni forma di potere, simbolizzata nel padre, che impedisca la libertà individuale.
Gavino, da bambino, trascura il gregge del padre. Il padre lo picchia fino a fargli perdere i sensi: