Italian Graffiti – Percorsi italiani nella (s)memoria cinematografica collettiva a cura di Massimiliano Schiavoni
Assai presto il neorealismo ha incontrato il compromesso e l’industria, ammesso e non concesso che esista una sorta di neorealismo “puro”, possibile da isolare in laboratorio come il bacillo di una positiva malattia. Noi non lo crediamo, ma è pur vero che opere come Proibito rubare di Luigi Comencini, edito in dvd da Dolmen, marcano in maniera assai evidente un distacco rispetto alle note opere del periodo 1943-46 di Rossellini, De Sica o Visconti, pure di pochissimo precedenti. L’iter produttivo, innanzitutto, è già molto diverso, dal momento che il progetto del film partì come proposta di Carlo Ponti di fare una sorta di remake italiano di La città dei ragazzi di Norman Taurog con Spencer Tracy, opera di successo del 1938 giunta da noi solo nel dopoguerra. Un produttore, quindi, con un’idea precisa già formata, in cerca di un regista che lavori per lui. Luigi Comencini esordì al cinema non-documentario con quest’opera, che non amò mai particolarmente. E proprio per queste ragioni, poiché mal tollerava lo spirito edulcorato e ottimistico sul quale si fondava il film originale, tutto proteso a ripercorrere i canoni del classico cinema hollywoodiano di quegli anni. Comencini accettò la proposta e tentò di forzare le cornici del modello per condurre la pellicola verso le proprie tendenze, comuni a tutta un’epoca. Una radiografia dal vero delle condizioni di vita in cui versavano i piccoli “scugnizzi” napoletani abbandonati a se stessi negli anni del dopoguerra. L’infanzia violata, tema che ricorrerà spesso nel cinema successivo dell’autore.
L’opera mostra con evidenza tutti i segni di questa ibridazione. La narrazione segue uno sviluppo mai spezzato, frammentario o incidentale, come spesso accade in Rossellini in quegli anni, bensì si sorregge su una struttura solida e unidirezionale. I caratteri sono trattati con sguardo semplice e un po’ ingenuo (soprattutto la figura del parroco protagonista, fin troppo angelicato, occasione per una buona prova di un giovanissimo Adolfo Celi), che risentono di un certo buonismo hollywoodiano. E i bambini stessi sono trattati con atteggiamento duplice. Da una parte Comencini segue le linee del neorealismo imponendo la scelta di veri scugnizzi di strada, ma dall’altra cuce loro addosso (ad alcuni in particolare, che emergono come coprotagonisti) veri personaggi, incastonati in un solido racconto di peripezie, furti, sotterfugi ai danni del parroco e ribellioni finali contro i mariuoli che li sfruttano e li educano alla malavita. Si tratta di una caratteristica ricorrente in molte opere di autori diversi, dalla seconda metà degli anni Quaranta in poi. Cinema che cerca di mantenersi a suo modo impegnato e militante, ma che si piega per spostamenti progressivi a una logica sempre più industriale. E soprattutto a una morale al di sopra della storia, evidente e sovrascritta, che in questo caso assume i tratti dichiarati del racconto edificante. Non ci sarebbe da stupirsi se Proibito rubare avesse fatto la gioia di molte sale parrocchiali in quegli anni, grazie alla sua facile moraletta di redenzione tramite l’applicazione di una pedagogia alla don Bosco. E’ la prima volta, ma non sarà l’ultima, che Comencini si trova a dover lottare con la produzione. Questo suo piccolo film attesta già un cambio di prospettiva nei rapporti di forza del nostro cinema. Dopo la libertà, la ricostruzione. Di industria, di “messaggi” (ahinoi) e perciò di profitto.