Italian Graffiti – Percorsi italiani nella (s)memoria cinematografica collettiva a cura di Massimiliano Schiavoni
Un esercizio di stile, sì, come molti dicono tuttora a proposito di Il magnifico cornuto. Ma da parte di un autore che poteva permettersi tali esercizi poiché di stile ne aveva da vendere. Grande miopia, quella della critica dell’epoca nei confronti di Antonio Pietrangeli. Miopia, in realtà, che colpì indistintamente molta parte della commedia all’italiana anni Sessanta, liquidata spesso tramite uno sbrigativo approccio contenutistico. E miopia anche in parte giustificata, poiché nella grande massa produttiva di commedie di quegli anni il rischio di appiattimento percettivo era altissimo, tanto da rendere difficile la distinzione tra il frusto canone ripercorso senza personalità, e la riflessione estetica di veri autori. Rivisto oggi, l’insieme dell’opera di Antonio Pietrangeli appare come il raggiungimento più alto, più compiuto di una tendenza creativa comune a tutta una generazione. Meno ricordato e conosciuto di Monicelli, Risi, Germi, Comencini, Scola, in realtà Pietrangeli è il più puro distillato della commedia all’italiana, capace come nessun altro di condurre al massimo grado di tensione drammatica il conflitto tra le due anime di quel cinema: la bastonatura di vizi sociali in funzione del riso, e le tetre ombre della tragedia più fosca.
Risultato: il cinismo, che tuttavia non si tinge mai di provocazione survoltata, bensì si trasforma in lacerante formazione di compromesso per un universo schizoide come quello degli anni Sessanta. E la commedia apparentemente più classica si converte in spietato psicodramma. Il magnifico cornuto, edito in dvd Medusa, ne è l’espressione più esemplare: un soggetto semplicissimo, vagamente ispirato a una farsa di Fernand Crommelynck, tutto fondato sul tema archetipico della gelosia, con tenui cenni sociali trascurati in favore di una discesa nel lato più oscuro del “maschio del boom”. Che, fautore (in)cosciente del dominio, rasenta la follia laddove il suo dominio non può arrivare e deve avvalersi giocoforza di un concetto per lui intollerabile: la fiducia, unica imprendibile garante di una pacifica convivenza al fianco di una bellissima moglie. Abbandonate presto le coordinate contingenti, il film si chiude progressivamente su un confronto a due, teso, claustrofobico, magistralmente scritto (da Ruggero Maccari, Ettore Scola, Diego Fabbri e Stefano Strucchi) e superbamente interpretato da Ugo Tognazzi a uno dei vertici della sua carriera (un po’ meno da Claudia Cardinale, poco persuasiva specie sul versante drammatico). Certo si ride, ma si ride nerissimo, un “nerissimo” derivante, per contrasto, da uno svolgimento che non carica mai i toni oltre il livello di guardia. Per molti si tratta del film meno riuscito di Pietrangeli, poiché forse si resta affezionati all’idea più vulgata del Pietrangeli narratore a chiaroscuro di straordinarie figure femminili. La visita (1963), subito precedente, e Io la conoscevo bene (1965) rimangono in tal senso opere inarrivabili. Veri capolavori. Ma Il magnifico cornuto, magari opera “alimentare” e su commissione, come pure molti dissero, conduce al massimo grado di asciuttezza, quasi di distanza neoclassica dalla materia, il discorso estetico della commedia all’italiana. Che in mezzo a una risata, ci soffoca per l’angoscia.
Notturne ossessioni di gelosia per Ugo Tognazzi, con un inedito Gian Maria Volonté in veste di tombeur de femme: