Italian Graffiti – Percorsi italiani nella (s)memoria cinematografica collettiva a cura di Massimiliano Schiavoni
Quando agli inizi degli anni Settanta il canone della commedia all’italiana inizia a sgretolarsi, avvengono anche fenomeni eccentrici e fuori dalle righe. Come Trastevere di Fausto Tozzi, attore e sceneggiatore che da regista firmò solo questo film e una precedente coregia. Opera di cui Tozzi si assume tutti gli oneri principali: regista, soggettista e sceneggiatore. Opera che fu poi drasticamente tagliata e rimontata dal produttore Alberto Grimaldi, tanto da impedirne in buona parte una vera analisi a posteriori. Se il montaggio, ad esempio, appare arruffato e affrettato, e gli episodi di cui il film si compone risultano pesantemente disomogenei e squilibrati nell’economia narrativa, quanto di questo si può imputare a Tozzi, e quanto al produttore? Il tratto narrativo sbilenco e diseguale è un pregio a favore di Tozzi, alla ricerca di nuove e originali forme di racconto episodico, oppure è un disvalore apportato dal produttore, che rimontò il tutto alla bell’e meglio? O addirittura, paradossalmente, un valore da attribuire allo stesso produttore, illuminato narratore postmoderno?
Comunque sia, il Trastevere che vediamo oggi (reperibile in dvd Eagle Pictures) rimane opera di grandissimo interesse. Molti hanno parlato di film al crocevia tra commedia all’italiana nella sua versione più cinica e nera, e pasolinismo e fellinismo di riporto. Ma, come spesso accade, il gioco delle somiglianze è solo di superficie. Sì, siamo nella borgata romana per eccellenza, come tanto piaceva anche a Pasolini, e l’episodio finale ha quel tanto di rito corale, grottesco e funereo, che Fellini ha percorso in varie sue occasioni. Ma in realtà Fausto Tozzi mostra una personalissima poetica, terrena e malinconica, che aspira ed evoca dimensioni “al di sopra di noi” sempre con i piedi ben piantati a terra. Sotto il cielo di Trastevere la gente compie nefandezze di ogni tipo (il personaggio-cardine, la sora Regina, è una strozzina; si compra e si vende tutto, da cani a nonne, dal sesso alla droga, all’anima), eppure ogni figura che attraversa il film non è mai giudicata, ma solo osservata, sia pure tramite uno sguardo espressionista e sovraccarico. Certo, risuonano qua e là moralismi non dichiarati, assunti a monte, soprattutto nell’episodio di Nino Manfredi, dovuti alla tipica incapacità, comune a molto cinema italiano anni Settanta, di raccontare il proprio tempo se non tramite facili schematismi. Così, la nascente Trastevere multietnica e popolata da snob e intellettuali è animata da capelloni, hippies e “drogati” osservati con un vago scetticismo, che tuttavia non impedisce comprensione e pietas per tutti. “Qua nessuno ti giudica né ti condanna”, dice il sofferto professore voyeur interpretato da Leopoldo Trieste, che concede volentieri la moglie a chi capita. Battuta-chiave, significativa in più direzioni. Sguardo autoriale di Tozzi, ma anche testimonianza di quell’ambiguità tutta romana che oscilla continuamente tra vera comprensione dell’altro e pura, cinica indifferenza. Luoghi comuni, magari, ma anche capacità di raccontare lo spirito di una città e di un popolo. Che non a caso esplode in un delirio di sgradevole carnalità nell’episodio finale, dove le vecchie pellegrine si scatenano in canti e danze per un tripudio di culi sfatti, peti in punto di morte e incontinenze urinarie. Di nuovo, gioia di vivere o delirio autodistruttivo? Comprensione o indifferenza? Cielo o Terra? Roma.
Lite condominiale e plurigenerazionale a Trastevere: