Italian Graffiti – Percorsi italiani nella (s)memoria cinematografica collettiva a cura di Massimiliano Schiavoni
Dopo aver goduto di un ottimo successo e di un certo culto lungo tutti gli anni ’80, tanto da trasformare il suo stesso titolo in un modo di dire entrato nell’uso linguistico quotidiano, Mi manda Picone (1983) di Nanni Loy, reperibile in dvd Medusa, si è poi lentamente disperso. Raramente riproposto in tv, se non a orari da animali notturni tanto per riempire due ore del palinsesto. Così come si è dispersa un po’ la memoria di Nanni Loy, buon mestierante nel solco della commedia, dotato di una certa personalità più sul versante tematico che su quello estetico. Talvolta, una sorta di seconda linea monicelliana (da Monicelli ereditò il seguito di I soliti ignoti, e pure il terzo, penoso capitolo di Amici miei), ma anche con qualche punta notevole come Le quattro giornate di Napoli (1962), Il padre di famiglia (1967), Detenuto in attesa di giudizio (1971). E Mi manda Picone, per l’appunto, uno dei suoi film più sentiti, ispirati, dolorosi, sofferti. Dimenticabile sul piano estetico (la sequenza iniziale del “suicidio” di Picone, una su tutte, mostra tutti i limiti di un’estetica trascurata e degradata, tipica del nostro cinema anni ’80 di consumo), contorto e incoerente sul piano narrativo, pieno di buchi o coincidenze forzate nell’economia del racconto, ma forte di un approccio da incubo a occhi aperti sulla Napoli di quegli anni. Una progressiva discesa all’inferno del sottosuolo sociale partenopeo, che si fonda innanzitutto su un’idea di sceneggiatura archetipica ma sapientemente attualizzata: la “sostituzione di persona”, l’inquietudine del doppio, e di conseguenza la facile dispersione di personalità in una città-mostro che tutto inghiotte. Alternando accenti pirandelliani e kafkiani alla comicità survoltata e macchiettistica più pertinente alla nostra commedia classica.
E’ sapiente, innanzitutto, la scelta del protagonista: un ometto disoccupato, che tira a campare, malato d’ulcera, pavido e insignificante, coinvolto per puro caso (come, probabilmente, molte delle cose della sua vita senza orizzonti) in un’indagine senza fine. Salvatore Cannavacciuolo: un antieroe, a cui dà corpo e anima un Giancarlo Giannini al meglio della sua forma. Sempre sopra le righe, ma alle prese con un personaggio più intagliato, più significante, che supera i limiti del macchiettone meridionale a cui Giannini era un po’ condannato in quegli anni. Davanti a lui, un percorso nel cuore nero di Napoli, tra bombaroli ciechi, contrabbandieri di sigarette, falsificatori di piombini della Finanza, piccoli camorristi che gestiscono scommesse ippiche clandestine, papponi con prostitute indisciplinate da sfregiare, e trafficanti di droga nascosti nelle fogne. Lo sguardo di Loy piega quasi totalmente verso il grottesco funereo, dove la risata non trova mai la forza di salir fuori, strozzata dalla radiografia di un tessuto sociale esploso, violento e rassegnato a un’isterica disperazione. Valore aggiunto, il gioco attoriale è ben diretto, tra caratteristi di lungo corso (Carlo Croccolo, Leo Gullotta, Aldo Giuffré) e una delle prove migliori al cinema di Lina Sastri, silenziosa e rabbiosa, oscura e vitale, forse la vera anima di tutto il film. E Napoli? A conti fatti Mi manda Picone è un atto d’amore per la città, di quell’amore da figlio ferito (e Loy non era neppure napoletano…) che spesso si tramuta in rabbia insofferente verso una madre così autodistruttiva.
Non sempre spacciarsi per Picone fa fioccare soldi dai debitori. Talvolta si può incontrare anche un creditore: