Italian Graffiti – Percorsi italiani nella (s)memoria cinematografica collettiva a cura di Massimiliano Schiavoni
Film controverso, che all’epoca della sua uscita non piacque quasi a nessuno, Zabriskie Point (reperibile in dvd Warner) fa comunque onore a Michelangelo Antonioni innanzitutto per la sua natura sperimentale. Non tanto e non solo per gli innovativi mezzi d’espressione a cui Antonioni fece ricorso, quanto per la sperimentazione che l’autore condusse su se stesso, sulla propria poetica, sul proprio universo. Girato tra Blow-Up (1966) e Professione reporter (1975), Zabriskie Point mostra un autore “in movimento” (finalmente, diremmo, poiché Antonioni si era abbondantemente posato su se stesso nel decennio precedente, adagiato in una produzione compatta ma, talvolta, oltre la soglia della ripetitività), che si confronta cioè con nuovi orizzonti, nuove sfide, nuovi raggiungimenti. Dopo le opere dedicate ai temi dell’alienazione e dell’incomunicabilità, Antonioni approda infatti a un territorio da lui fino ad allora inesplorato, sia sul versante meramente tematico sia su quello espressivo. E perviene a un’opera magari sbagliata, sbilenca, che dà letture discutibili della contestazione giovanile di quegli anni, ma difficilmente assimilabile ad altre opere della storia del cinema. Non ha padri e non ha figli. Un po’, forse, come la stessa contestazione di quegli anni che intende narrare.
Un dato, innanzitutto: tra i maestri riconosciuti del nostro cinema, Antonioni è sempre stato definito (con buone ragioni) il “meno italiano” in assoluto. Zabriskie Point è l’opera in cui tale tendenza emerge con maggiore vivacità. A ben guardare, la linea narrativa è fedelmente antonioniana; si parte da un racconto vagamente strutturato per disperderlo poi, passo dopo passo, dietro ai due protagonisti. Il deserto che li accoglie, e che dà loro modo d’incontrarsi ed esprimersi, fa da controcanto a una progressiva desertificazione narrativa. E, di pari passo, l’opera si colloca in una dimensione espressiva sovranazionale. Si badi bene, non forzosamente internazionale, bensì universale. Il linguaggio universale dell’immagine, che non ha più bisogno di lingue, parole e doppiaggi. Poi, certo, tutti i difetti della poetica di Antonioni, sempre più macroscopici dalla fine degli anni ’60 in poi, li ritroviamo pure qui. I pochi dialoghi sono spesso terrificanti, vistosamente didascalici, così come i simbolismi sono facili e sbandierati (la mano di Tonino Guerra in sceneggiatura è più che evidente). Spesso si ha l’impressione che l’atteggiamento di Antonioni verso questi nuovi giovani ribelli non sia neanche troppo sincero. “Uno sguardo borghese”, molti dissero. A distanza di più di quarant’anni, diremmo anche patinato. Lo stesso finale, famosissimo, indubbiamente efficace e tecnicamente ammirevole, ricorda tuttavia l’estetica da videoclip che di lì a pochi anni darà vita a un nuovo territorio d’espressione audiovisiva. Ma è pur vero che il nostro è uno sguardo “a posteriori”, e che quando Antonioni girò quella sequenza il videoclip era un concetto ancora di là da venire. Cinema esteticamente profetico, forse. Di sicuro cinema che va oltre tanti steccati espressivi del suo tempo. Cinema concepito con un vero spirito di “sincretismo creativo”, in cui ogni forma d’arte si fonde in un’unitaria composizione estetica. Musica (dei Pink Floyd e dei Grateful Dead), immagini, fotografia (meravigliosa, di Alfio Contini). Peccato per le parole. Se Zabriskie Point fosse un film muto e non tentasse di raccontare il ’68, forse sarebbe un capolavoro.
I simboli del consumismo occidentale esplodono uno dopo l’altro, accompagnati dalla musica dei Pink Floyd. Uno dei finali più potenti della storia del cinema: