Italian Graffiti – Percorsi italiani nella (s)memoria cinematografica collettiva a cura di Massimiliano Schiavoni
Sebbene la cosiddetta “Trilogia della Vita”, di cui I racconti di Canterbury (reperibile in dvd Sony Pictures) costituisce il secondo capitolo, si configuri superficialmente come una netta virata di temi e stile rispetto al Pasolini anni ’60, in realtà l’approdo è del tutto coerente ed estremo. Un intellettuale rivoluzionario che prova infinito strazio per le culture in via di sparizione sotto i colpi incessanti dell’omologazione, e che dalla poesia delle borgate si sposta prima verso i miti greci (Edipo Re, Medea), alle fonti cioè della creazione letteraria, poetica e finzionale della cultura occidentale, poi alle radici del racconto popolare (Boccaccio, Chaucer e “Le Mille e una Notte”), laddove l’essere umano lascia testimonianza di un se stesso lontano da sovrastrutture, o meglio dall’autocoscienza di tali sovrastrutture. Un rivoluzionario che adora il primitivismo, le forme precapitalistiche di società, le “società presociali”. Diremmo, soprattutto preilluministiche e prefreudiane. In tal senso, se la provocazione risiede nel rifiutare un’arte didascalicamente “impegnata” alla ricerca di forme disperse dell’essere, d’altro canto è evidente che dai borgatari presociali al Trecento novellistico il passo è brevissimo.
Il primo tentativo verso tale rifiuto concettuale della modernità è Il Decameron (1971). Poi viene I racconti di Canterbury (1972), in cui il metodo si affina, si fa più algido, più freddo, cerebrale. A fronte di una notevole accuratezza di ricostruzione storica su un piano prettamente esteriore (costumi e scenografie), lo sguardo di Pasolini è spudoratamente moderno. Sguardo inteso come “vedere cinematografico”: la macchina a mano occupa spazi sempre maggiori, i piani lunghissimi sui paesaggi sono privi di qualsiasi premura di ricostruzione arcaizzante, i personaggi adottano un linguaggio dialettale da Italia settentrionale del tutto distonico, e soprattutto non si curano della coerenza spazio-temporale (in un’Inghilterra trecentesca si parla di fughe in Maremma…). Ogni elemento compositivo, insomma, mantiene il proprio carattere popolare e al contempo si fa strumento di opera concettuale. Se da un lato, come sottolinea sul finale lo stesso Pasolini nei panni di Chaucer, è dominante il “puro piacere del narrare”, inteso come risalita alle fonti del racconto privo di ulteriore intento, dall’altro ogni singolo frammento riflette idee e scelte portatrici di senso. Si veda l’episodio con protagonista Ninetto Davoli, che trasforma un racconto di Chaucer in occasione di recupero delle origini del comico muto, con palese omaggio a Charlie Chaplin. Dal primitivismo della narrativa popolare al primitivismo cinematografico. O l’approccio assolutamente non morboso alla corporalità, messo in scena in tutte le sue funzioni fisiologiche, dal sesso alla fame, alla scatologia, agli abbondanti peti che pure emanano da bei sederoni in primissimo piano. Per finire con la discesa all’inferno, in cui una trovata comica irresistibile (il culone di un demone defeca uomini di chiesa uno dopo l’altro) si fa provocazione esplosiva ed estrema. Certo, come molti dissero e dicono tuttora, I racconti di Canterbury è il capitolo più debole della trilogia. Meno sorprendente, meno scardinante, più “accademico”. Dove, però, per accademico s’intende il compiuto approdo, e per questo più prevedibile che altrove, di un percorso unitario e “necessario”.
La novella del Frate, con annessa rappresentazione provocatoria dell’inferno: