Italian Graffiti – Percorsi italiani nella (s)memoria cinematografica collettiva a cura di Massimiliano Schiavoni
Consueto titolo chilometrico (e sostanzialmente orribile, come molti dei suoi) per l’approdo agli anni ’80 di Lina Wertmüller: Scherzo del destino in agguato dietro l’angolo come un brigante da strada (1983), ovvero una chicca di sceneggiatura, a cui Age ha collaborato, che manda all’aria, a poco a poco, di passo lento e poi crescente fino a un’isterica apocalisse, le macrocategorie sociali di un’Italia a malapena uscita dall’incubo degli anni ’70. Per anni Lina Wertmüller è stata una foglia di fico nazionale. Grazie a lei era lecito affermare che nel nostro paese “anche le donne fanno cinema”. Fino al 1994 è stata addirittura l’unica donna candidata all’Oscar per la regia (per Pasqualino Settebellezze, 1975, grande successo negli Stati Uniti), a sommo scorno delle colleghe d’oltreoceano. Cresciuta in parte alla scuola di Fellini (ai suoi esordi ne fu assistente più volte), dal Maestro la Wertmüller ha ereditato solo una vaghissima comunanza di gusto per il grottesco. Nient’altro. Poiché l’autrice ha poi declinato tale grottesco esagitato solo in funzione di apologhi sociali, in cui i luoghi comuni, le categorie morali più macroscopiche del nostro Paese, i colorismi e dialettalismi sono tradotti in una forma strapaesana, populistica e spesso solo urlata, ovvero lontana da vera riflessione a monte. E tecnicamente è sempre apparsa niente più di una vulcanica mestierante, terribilmente affezionata agli zoom effettati, a estenuati primi e primissimi piani, e a un uso meramente narrativo della macchina da presa. Nel vedere della Wertmüller riverbera non tanto Fellini (ci mancherebbe…), quanto la massiva produzione della serie B italiana, non ultimo lo spaghetti-western.
Con Scherzo del destino, reperibile in dvd CVC-Videa, le coordinate estetiche restano più o meno le medesime, con varie rozzezze di ripresa (specie negli esterni) e imbarazzanti cesure di scena, chiuse spesso con battute di servizio pretestuosissime. Tuttavia, stavolta il passo narrativo si rallenta, in linea con l’azzeccata idea di partenza: la macchina ipertecnologica e iperprotettiva di un ministro va in tilt. Il ministro resta prigioniero dell’auto, e l’occasione è provvida per rivelare, a poco a poco, le varie bassezze umane di tutti coloro che tentano di liberarlo. L’immobilità forzata si tramuta in strumento di rivelazione. E ce n’è per tutti. Com’è d’uso nella commedia “opulenta” della Wertmüller, ogni singolo personaggio incarna una macrocategoria sociale, definita tramite dialoghi iperdidascalici e accesissime coloriture: il politico DC viscido e imbelle, la moglie filo-brigatista, il brigatista sfigato, il rigido capitano dei carabinieri, il tirapiedi pavido e ossequioso… E si parla di tutto, di terrorismo e femminismo, di ossessioni per la sicurezza, di ideali e politica di palazzo. Un bigino dell’Italia dell’epoca, tramutato in una sorta di “commedia dell’arte” sociale (in sostanza, son tutti dei buffoni), che tuttavia si nutre di una potente vena surreale. La scrittura è, in realtà, più teatrale che cinematografica, ma, un esempio su tutti, le liti folli tra Ugo Tognazzi e Piera Degli Esposti sfruttano al meglio il sopra-le-righe. Meno declamatoria che in altre occasioni, Lina Wertmüller stavolta diverte davvero. Oggetto estraneo e curioso nelle incipienti desolazioni dei nostri anni ’80.
L’inizio del film, con colonna sonora di Paolo Conte: