Italian Graffiti – Percorsi italiani nella (s)memoria cinematografica collettiva a cura di Massimiliano Schiavoni
C’è un’altra automobile sportiva, oltre a quella di Bruno Cortona ne Il sorpasso, che va su e giù per l’Italia anni Sessanta del boom. E’ quella di Antonio Berlinghieri, ingegnere prossimo ai quarant’anni, che, in viaggio verso Pisa per andare a trovare il figlio in collegio, fa un’unica lunga sosta in riva al mare sulle tracce di una Francesca sedicenne, sbarazzina e un po’ cinica, e della crescente e atroce consapevolezza di non esser più giovane. Il film è La voglia matta (1962) di Luciano Salce, di poco precedente al film epocale di Dino Risi. Francesca è Catherine Spaak, (in)volontaria icona di una nuova spregiudicatezza giovanile a cui dà corpo e sorriso in due opere così fondanti di un genere, di un’epoca e di tutta una cultura. Il protagonista è Ugo Tognazzi, in una delle sue prove più compiute, secondo un profilo di patetica umanità che negli anni si tramuterà nel suo tratto più dolente e marcato.
Luciano Salce è stato un autore piuttosto prolifico ma assai discontinuo, noto anche per il suo carattere vulcanico e per il suo spirito acre. Accusato, pure, per alcuni dei suoi film, di facile qualunquismo. La voglia matta, suo secondo film (se non si contano gli esordi brasiliani), risulta con grande facilità il suo migliore. Ben orchestrato su amarezze e sarcasmi virulenti eppure tenuti a briglia corta, su una corda tesissima che non permette mai alla commedia di sbracare verso la totale macchietta. Certo, il gruppo di giovani, ricchi, annoiati e destrorsi, messi a contrasto con i valori superati (ma anche inutili e facilmente “superabili”) del protagonista, sono definiti tramite macroscopici luoghi comuni, che però prendono forma tramite battute fulminee e geniali. “Mussolini chi? Il padre del pianista?”… “Basta parlare sempre di Hitler e Stalin…! Parliamo un po’ di Sinatra”… Nessuno di loro mira a compiersi in vero personaggio, bensì se ne danno dei rapidi tratti, o li si chiudono dentro a refrain di effetto comico, che si velano anche di risonanze psicologiche e di costume (la ragazza che continua a chiedere “la Marlboro”, ovvero la stanca e vuota ripetitività di azioni e parole). Il conflitto generazionale è facile, immediato e un po’ scontato, e tuttavia permette un’ammirevole costruzione narrativa del protagonista. Personaggio più amaro e lancinante di Bruno Cortona, perché narrato “dall’interno”, ovvero colto nei suoi fremiti interiori, nei suoi scatti di patetico orgoglio e di disprezzo per una nuova generazione che lo mette da parte e si rifiuta di rispettarlo. Il presunto qualunquismo di Salce qui si riconverte in vero senso tragico, tanto che nessun personaggio riesce a catturare la nostra simpatia. Di certo non i giovani, ma nemmeno Antonio Berlinghieri, che tutt’al più può strapparci una smorfia di pietà umana. Forse un filo di simpatia è riservata solo a Francesca, che se ne frega un po’ di tutti e si prende il meglio da tutti, ma che al contempo configura meglio di ogni altro il vuoto totale di un’epoca. In tal senso, Salce ha il grande merito di tenersi lontano da giudizi troppo evidenti. Lascia che i personaggi si raccontino da sé, che sia il cinema a fare il suo mestiere. Magari lo stile non è particolarmente personale, e anzi tende a un rapido eclettismo (nel finale c’è pure spazio per una “fellinata”) che però, a ben vedere, è ricorrente nel codice della commedia all’italiana di quegli anni. Quel che resta, è un’opera allo zenit del nostro cinema.
La velocità e il mito dell’auto anni Sessanta. Due generazioni a confronto.