(Italian Graffiti – Percorsi italiani nella (s)memoria cinematografica collettiva a cura di Massimiliano Schiavoni
Nella memoria collettiva, Pietro Germi è forse più fortemente identificato nella cosiddetta sua “seconda fase” creativa, ovvero la commedia sulfurea e survoltata a cui è approdato, piuttosto inaspettatamente, negli anni ’60. Produttrice, anche, di mille stereotipi e regionalismi, tanto che all’estero è più facile riscontrare popolarità e immediata identificazione nazionale nei marchi di fabbrica di Divorzio all’italiana (1961) o Sedotta e abbandonata (1963) che nel cinema di Monicelli, Risi o altri. Tuttavia, Germi si avvicina al cinema tramite strade ben diverse, a cavallo tra gli anni ’40 e ’50, in piena era neo- e postneorealistica, proponendo chiavi molto personali di rilettura di canoni e cliché in via di rapida solidificazione. La sua prima produzione, a cui Il cammino della speranza (1950) appartiene, prende vita da istanze diffuse nel cinema dell’epoca. Oramai la “povera gente”, l’intento sociale, il cinema come documento di verità e provocazione estetica sono diventati parole d’ordine comuni a tutta una generazione. Il cinema italiano, in questo, configura se stesso, il suo tratto più distintivo anche nel panorama internazionale, e più o meno (sicuramente meno di quanto si affermasse nei documenti programmatici) è rifiutata una classica e preordinata dimensione drammaturgica.
In tal senso, Germi va in controtendenza, e assume tutto l’indotto creativo che costituisce il sostrato di storie e soggetti del nostro cinema per farne cinema popolare e spettacolare. Il procedimento è simile alle contaminazioni di genere di Riso amaro (1949) di Giuseppe De Santis, apice “postmoderno” in cui un soggetto da canonico neorealismo (la realtà sociale delle mondine) si trasforma in occasione narrativa addirittura di noir e musical. Germi è meno provocatorio, e incastona la storia di una fuga dalla Sicilia al Nord di minatori in cerca di fortuna in un impianto saldamente e classicamente melodrammatico, che non disdegna soprattutto una costruzione narrativa tutta basata sull’avventuroso, la peripezia, con tanto di sconfinamenti verso il western. E’ emblematica, in tal senso, la sequenza dell’approdo alla stazione di Roma, dove il bandito, mischiato ai minatori e braccato dalla polizia, dà vita a un inseguimento tra i vagoni ferroviari in cui il montaggio serrato, il commento musicale, la rapidità delle inquadrature ricordano l’estetica di una sparatoria da “lontano West”. Il melodramma, d’altro canto, è altisonante, ieratico e magniloquente, come da canone spettacolare hollywoodiano ben metabolizzato, e ben incarnato nei volti scolpiti nella pietra di Raf Vallone ed Elena Varzi.
I tratti più personali, d’altro canto, sono ravvisabili nella composizione dell’inquadratura, in cui si riconosce una caratteristica ricorrente: la preminenza di primi piani “individualistici” ma mai isolati, bensì incorniciati da una discreta profondità di campo, ovviamente più accentuata se in esterni. Mentre un elemento eccentrico viene da un primo segnale di felliniana “fascinazione della metropoli” (Fellini scrisse la sceneggiatura per Germi insieme a Tullio Pinelli) nella bella sequenza dello smarrimento di Lorenza a Roma. Dove il boom, ante litteram, è filtrato dallo sguardo di una spaesata popolana. Opera composita, dunque, che mescola generi e tendenze su un materiale narrativo in linea con le “storie del tempo”, ma in cerca di una diversa estetica.
Il finale del film, in mezzo alle nevi alpine, testimonianza di uno sguardo popolare, avventuroso e spettacolare: