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Percorsi italiani nella (s)memoria cinematogrfaica collettiva
“Mussolini ultimo atto” (1974) di Carlo Lizzani: racconto cinematografico sospeso tra vari codici linguistici, inconsueto e “lontano”
(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)
22/02/11 – Nella sua notevole poliedricità, se è possibile rintracciare una linea unificante nell’opera di Carlo Lizzani, è soprattutto da identificare nell’approccio estremamente popolare. Svariando tra generi molto diversi, dalla commedia più commerciale al dramma storico e/o privato, non disdegnando nemmeno, sia pure in un unico caso (Requiescant, 1967), lo spaghetti-western, l’autore romano ha innanzitutto pensato di raccontare a un pubblico. Raccontare, spesso, brani di storia del nostro Paese, senza temere di confrontarsi con le pagine più discusse e controverse. Attraversando prove diverse e non sempre di uguale riuscita, in Lizzani è percepibile il tentativo di mantenere quanto più vivo lo spirito neorealistico anche in anni ormai lontani dal fatidico dopoguerra degli anni ’40. Anzi, seguendo uno sviluppo in qualche modo simile a Roberto Rossellini, Lizzani perviene talvolta a un cinema di forte impronta didattica, proteso alla divulgazione quanto più oggettiva e imparziale possibile. La storia, innanzitutto, come serie di eventi da narrare, per riflettere.
Ne è prova Mussolini ultimo atto (1974), racconto degli ultimi giorni di Benito Mussolini, opera che evidenzia un convinto tentativo di minima drammatizzazione di fatti storici, messi in linea nel loro svolgersi e nella loro realtà fattuale. L’approccio, in realtà, è più poliedrico di quanto potrebbe sembrare a prima vista, ma stretto intorno a un’unica, forte finalità: il racconto “a distanza”, lontano da coinvolgimenti emotivi. Certo, nel suo anelito a un cinema popolare Lizzani non disdegna di mutare registro, anche bruscamente. Così, alle lunghe sequenze di dibattito e confronto politico-strategico, condotte con spirito quasi da ricostruzione documentaria, si alterna il melodramma insistito della figura di Claretta Petacci, e altrettanto può dirsi del trattamento riservato alla figura di Mussolini, che appare come un grande sconfitto della Storia, una montagna umana di errori politici che sfocia, nei suoi ultimi giorni, in una figura malinconica e vagamente patetica.
Ancora, lo spirito popolare emerge in alcune battute di dialogo affrettate e infelici, che tradiscono un fastidioso “senno di poi”, probabilmente per andare incontro ai luoghi comuni che già negli anni ’70 dominavano il ricordo collettivo dell’era fascista (vedi il cardinale Schuster che chiosa Mussolini con “colui che fece arrivare i treni puntuali”). Ma Mussolini ultimo atto è anche la testimonianza di un metodo ormai sparito dagli orizzonti del nostro cinema. Ai giorni nostri, un soggetto simile sarebbe buono per una fiction in sei puntate, ma previa una rapida ripulitura dei lati più scomodi, se non addirittura una rilettura revisionistica stupidamente “politically correct”. Lizzani, invece, fa cinema scardinando impercettibilmente molte convenzioni narrative. Così legato al “fatto”, all’evento narrato di per sé, da rinnegare una vera dimensione drammaturgica, affidandosi senza timori all’episodicità, al racconto irregolare e frastagliato. Così, ad esempio, i partigiani sono trascurati per lunga parte del racconto, e chiamati in causa solo nella seconda metà. Ovviamente Lizzani non può esimersi dal raccontarli tramite sequenze squilibratamente trionfalistiche, che tuttavia appaiono un evidente tributo a una retorica obbligata. Magari manca un vero equilibrio, questo sì. Ma la serietà d’approccio storico è una qualità destinata a essere dissolta negli anni a seguire.
L’esecuzione di Benito Mussolini e Claretta Petacci, l’ipotesi più accreditata, sposata da Lizzani: