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Percorsi italiani nella (s)memoria cinematogrfaica collettiva
“L’ombrellone” (1965) di Dino Risi: la proliferazione dei “mostri” anni ’60, tra riti di massa e inquieta autocoscienza
(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)
15/02/11 – Dopo aver già realizzato Il sorpasso e I mostri, prime prove di un autore alle prese con il boom economico italiano anni ’60 e le sue ripercussioni sui nostri profili antropologici, Dino Risi produsse uno dei suoi film più sperimentali e spericolati, all’epoca poco amato perché, a suo modo, non allineato ai canoni della commedia del tempo. O meglio, poco amato perché trattava quei canoni con un margine di notevole coscienza critica, amplificandoli fino allo spasimo, per giungere allo svelamento del loro rovescio estetico e per narrare, pur tramite gli stessi cliché, l’impazzimento di un Paese al di qua dello schermo (nella realtà) e al di là dello schermo (la diffusa indulgenza cinematografica verso schemi sociali sempre meno condivisibili). L’ombrellone vede la luce secondo tali coordinate. In primo luogo, è rilevante l’utilizzo di Risi nei riguardi della sceneggiatura. Un racconto “inesistente”, privo d’intreccio, che pare adagiarsi sulla tipica struttura episodica risiana. Episodicità, si badi bene, che caratterizza il cinema di Risi sia nel vero e proprio “film a episodi” (I mostri) sia nell’andamento occasionale dei suoi film a racconto unitario (Il sorpasso, Il giovedì, Il Gaucho…). Anche ne L’ombrellone troviamo un personaggio “estraneo” che si muove in un contesto, incontrando situazioni una dopo l’altra e vivendole con straniamento, disagio, straziante distanza.
Tale linea narrativa si sorregge in modo tenue e altalenante al tema portante di un tradimento sospettato, sorta di fabula principale che scompare e riappare, ma in modo del tutto occasionale e non necessario. Nel mezzo, ci sta il racconto di un’Italia di massa, narrata come tale solo tramite strumenti puramente cinematografici. Risi ci racconta un’altra “dolce vita”, non quella di via Veneto ma quella degli incipienti riti di massa vacanzieri, delle Riccione, Cattolica e Viareggio prese d’assalto dai turisti. I mostri hanno proliferato, e non vi è una singola sequenza che non sia caratterizzata dal brulicare di persone e oggetti, sempre leggermente deformati in mostruoso tramite l’uso espressionistico di colori pop, tanto da rendere inquietanti pure le abbronzature su cui spiccano labbroni tinteggiati di rossetto fucsia. La sperimentazione di Dino Risi gioca sugli stessi stereotipi della commedia all’italiana che lui per primo ha fortemente contribuito a fondare. Cosicché alla crescita esponenziale di un’Italia sovraffollata di mostri corrisponde un intasamento sonoro, ottenuto tramite una saturazione sfrenata di voci, rumori e canzoni popolari mischiate in caos fino al parossismo. E’ solo grazie a tale sapiente costruzione formale che risaltano, ad esempio, le rarissime sequenze d’intimità in camera tra i due protagonisti, dove il silenzio irrompe, violento e inaspettato, in mezzo alla continua produzione di suono. Ovvero, finiti i fuochi, marito e moglie non hanno tragicamente nulla da dirsi.
Allo scarso successo del film alla sua uscita contribuì probabilmente la scelta di Enrico Maria Salerno, che qua è pure bravissimo, ma che non corrispondeva all’esatto profilo del “colonnello della commedia”. Così come Sandra Milo non è adeguatamente sfruttata (caso più unico che raro di ottima attrice solo se “sfruttata”, nel vero senso della parola, dalla regia). E, in ultima analisi, sul finale Dino Risi pecca, come spesso gli è capitato, di spudorato didascalismo, volendo aggiungere a ogni costo una “morale d’autore” di cui non si sente la necessità. Ma L’ombrellone resta l’apice di un metodo autoriale.
Tra i tanti mostri, una vecchietta insiste per avere una ricetta medica dal povero Enrico Maria Salerno, che non riesce più a dormire: