Italian Graffiti
Percorsi italiani nella (s)memoria cinematogrfaica collettiva
“Il giorno della civetta” (1968) di Damiano Damiani: nascita del film di denuncia civile all’italiana, tra schemi di genere, passati e futuri, e approccio iper-popolare
(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)
08/02/11 – Come nasce il giallo civile all’italiana, che caratterizzerà tantissimo cinema nostrano degli anni ’70? Tematicamente nasce lontanissimo, in opere come In nome della legge (1948) di Pietro Germi, che in tempi e atmosfere ancora fortemente neorealistiche adottò schemi di genere tendenti alla convenzione americana per tentare una prima drammatizzazione della lotta contro la mafia. Il fenomeno, tuttavia, è rimasto sottotraccia per un paio di decenni, fino a esplodere con Il giorno della civetta (1968) di Damiano Damiani, che traducendo per lo schermo uno dei romanzi più noti di Leonardo Sciascia avvia una codificazione sempre più rigida di schemi e narrazioni destinati a creare un vero e proprio “cinema di genere” a sé, fortemente connotante del nostro cinema popolare successivo.
Se sul piano strettamente cinematografico si ritrova qualche raro precedente come il film di Germi, sul piano espressivo il nuovo genere viene formandosi su convenzioni riprese da altri territori italiani più recenti. In primis, lo spaghetti-western, di cui già Il giorno della civetta adotta una certa tendenza all’iperbole visiva, meno ingombrante, estetizzante e autoreferenziale che nel western, e bensì mirata a un cinema che identifica la denuncia civile nel sensazionalismo più didascalico. La tinta forte, l’iperbole sono finalizzati a denunciare nei termini più chiari, popolari e indiscutibili. Cinema rozzo, che nega qualsiasi ricerca sul mezzo in senso critico, ma che non trascura di far passare il proprio discorso tramite una forma quanto più avvincente e spettacolare. Per invitare il pubblico, evidentemente, a venire a conoscenza con realtà rimosse ma tramite l’incontro con una narrazione scaltra e avvolgente. Che informi il pubblico, ma che pure lo intrattenga. Così, da un lato i primissimi piani ravvicinati, il sudore e gli zoom rapidissimi dello spaghetti-western; dall’altro la sapiente e classica costruzione drammaturgica all’americana, che nega decisamente definizione e credibilità psicologica dei personaggi per un racconto di fatti e azioni, in cui le figure umane sono sbozzate in superficie e in esteriorità, esclusivamente finalizzate allo svolgersi dell’intreccio. A ulteriore commistione di genere, e anche a notevole rischio di ambiguità, si rileva un altro tratto distintivo: i luoghi comuni massimalistici si riconvertono spesso in bozzettismo regionalistico, per mezzo del quale specie i personaggi secondari si tramutano in macchiette comiche, allentando la tensione narrativa e contribuendo alla piacevolezza di un racconto a servizio del pubblico. Piacevole, per l’appunto, per la sua poliedricità, che non disdegna anche il ricorso alla macchietta e, di conseguenza, agli schemi dell’immortale e onnipresente commedia all’italiana. Ambiguo, perché? Perché talvolta si rischia un eccessivo ammorbidimento della tematica, e questo perché il grottesco allontana emotivamente lo spettatore, inducendolo a percepire come lontana e “che non lo riguarda” una realtà, sulla carta, denunciata come attuale e drammatica.
Giallo, denuncia civile, spaghetti-western, film d’azione, racconto all’americana, commedia all’italiana: il giallo politico italiano si mostra così un genere prodotto dalla commistione di altri generi, e che malgrado i suoi intenti si rivelerà anche molto innocuo e presto lontanissimo dall’esigenza di realtà.
La “teoria dei 5 uomini” di don Mariano Arena: