Italian Graffiti – Percorsi italiani nella (s)memoria cinematografica collettiva a cura di Massimiliano Schiavoni
La battaglia di El Alamein, per quanto dimenticata (rimossa?) dalla memoria storica nazionale, costituisce però un soggetto cinematografico che ritorna in epoche diverse della nostra produzione. Solo di pochi anni fa è il buon film di Enzo Monteleone, El Alamein – La linea del fuoco (2002), forse il più fedele allo spirito livido e decadente di una guerra combattuta in mezzo al paesaggio più ostile possibile, ovvero in mezzo all’assenza. Assenza dello stesso paesaggio, di coordinate spaziali determinate. Assenza di un nemico, che riesce quasi miracolosamente a nascondersi nel deserto, dove teoricamente ci si può nascondere solo dietro la linea dell’orizzonte visivo. In ultima analisi, assenza di se stessi, poiché in tale paesaggio, e agli sgoccioli di una guerra persa, si smarrisce anche il senso ultimo della propria esistenza. Ritrovarsi soldati sperduti nel deserto, senza combattere, senza acqua e cibo, ad aspettare più o meno niente, origina una totale alienazione del proprio ruolo sociale e del peso specifico esistenziale.
Monteleone racconta El Alamein secondo tali coordinate, e in più momenti sembra rifarsi a El Alamein, deserto di gloria di Guido Malatesta, recuperato in dvd dal 9 maggio per Medusa. Opera povera, scombinata, a conti fatti infelice e sconnessa, che però condivide col più recente film omologo un simile spirito umanitario, quantomeno nel suo sviluppo centrale. Malatesta parte da scelte rozze e rigide: un racconto esemplare, che con progressioni psicologiche tagliate con l’accetta trasforma didascalicamente un giovane e disimpegnato bellimbusto in un soldato obbediente e colmo di senso patrio. E per il buon peso, non manca una storia d’amore interrazziale tra soldato italiano e donna britannica, per sposare alla bell’e meglio una “tesi” pacifista. Questa è la cornice (incipit e finale) del film, girata oltretutto in un’ambientazione incongrua che sa tanto di Dolce Vita anni Cinquanta, poco credibile come paesaggio umano e sociale dell’ultima era fascista. Nel mezzo troviamo un racconto di guerra che evidenzia nettamente le ristrettezze produttive, ma che al contempo sposa uno sguardo asciutto e in fin dei conti poco glorificante sui lunghi giorni di guerra. Sparisce l’invasivo commento musicale dell’incipit, e il contrappunto sonoro è tutto affidato ai silenzi e rumori del deserto. I passi dei soldati, le loro giornate una uguale all’altra in attesa di una guerra che li ha dimenticati, le esplosioni improvvise, i carri armati. Poi di nuovo il silenzio. Certo, non mancano i dialoghi stentorei in cui la gloria del soldato italiano è sottolineata con insistenza, ma si avverte anche uno smarrimento che, ancor più teso verso l’esistenzialismo metafisico, è quello rintracciabile in Il deserto dei tartari di Dino Buzzati. Le scene di battaglia sono un patchwork di footage, riprese di esercitazioni militari e brani girati da Malatesta, scelte dovute più a povertà di budget che a ispirate contaminazioni estetiche. Ma si deve pur dare atto a Malatesta di portarci letteralmente dentro la battaglia, con notevoli azzardi stilistici come le soggettive dei soldati schiacciati dai carri armati. In pratica, alcuni singoli elementi sono più forti della loro somma. Si smorza così anche l’inespressività di un cast tutto assemblato di “seconde linee” (Gabriele Tinti, Rossana Rory, Livio Lorenzon, con la parziale eccezione di Fausto Tozzi), poiché si avverte sottotraccia il tentativo di un racconto in fuga dalla retorica richiesta o imposta.