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Percorsi italiani nella (s)memoria cinematogrfaica collettiva
“Una giornata particolare” (1977) di Ettore Scola: piena maturazione di un autore, l’unico della sua generazione ad aver compiutamente realizzato il trapasso dalla commedia al dramma
(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)
11/01/11 – Ettore Scola appartiene, in prima battuta, a una generazione leggermente “seconda” della commedia all’italiana. Più giovane dei colonnelli Risi-Monicelli-Comencini-Pietrangeli-Steno, ha iniziato come sceneggiatore di molte opere illustri di tali maestri, per poi passare alla regia di film di vaglia, del tutto deputati alla convenzione vulgata della commedia all’italiana. Autore sulle prime, cioè, di un cinema piuttosto impersonale, disperso in un anodino anonimato di genere. E’ negli anni ’70 che Ettore Scola non solo raggiunge un notevole status autoriale, ma compie un graduale spostamento verso il dramma, pervenendo altresì all’unico caso di reale e valida “mutazione” di un autore della commedia all’italiana. Come è ben noto, la migliore commedia all’italiana contiene in sé un’amarezza, una disillusione, un cinismo estremo che spesso possono confondersi con la dimensione del dramma. Ma la “commedia all’italiana” non è vero dramma, mai. E i colonnelli mai si posero alla realizzazione di una commedia con l’intento di forzarne le forme verso il vero dramma. Ci saranno, questo sì, tentativi di eclettismo (vedi gli anni ’70 di Dino Risi), ma spesso fallimentari.
Ettore Scola è l’unico che con convinta tenacia ha tentato la strada di un vero cambiamento. Radicato, sì, in figure, temi e schemi della commedia nostrana, anzi in alcuni casi cinema che fa dramma celebrando se stesso (C’eravamo tanto amati, 1974), ma sempre più proteso, negli anni, a una vera ispirazione drammatica, con relativo sconfinamento accademico negli ’80. Il punto più alto di questa tensione è da identificarsi in Una giornata particolare. Film, forse, meno “ingenuo” di quanto vorrebbe sembrare nella sua ostentata piccolezza e intimità di struttura, costruito probabilmente con consapevolezza di “capolavoro” sulla prova di due immensi attori al loro meglio. Che, ancora, con buona probabilità furono assoldati col chiaro intento di affidare loro due ruoli in controtendenza rispetto al cliché, che potessero essere riconosciuti come “i loro ruoli migliori di tutta una carriera”.
Insomma, forse molto fu studiato e preparato a tavolino, e il film non fu il prodotto di una miracolosa e inaspettata riuscita oltre ogni previsione. Lo testimonia l’accuratezza formale, la preziosissima fotografia che cerca di farsi vero significante (colori grigi e depotenziati per l’epoca fascista che decolorò un Paese nello squallore), una sapientissima sceneggiatura che riesce a far passare in secondo piano il conclamato didascalismo dei due protagonisti, e pure una certa macchinosità d’intreccio nell’incipit, tramite un’estrema sobrietà e credibilità di dialoghi e profili umani. Perché Gabriele e Antonietta incarnano categorie storiche con macroscopica evidenza e fin troppo esplicite giustapposizioni (l’omosessuale perseguitato, la donna che non sa esprimere i propri sentimenti perché non sa leggere né scrivere), ma sono anche meravigliose incarnazioni veritiere e commoventi. La prova di Marcello Mastroianni fu strepitosa, ma soprattutto Sophia Loren, sottoutilizzata nel cinema italiano e non da almeno dieci anni, si produsse in un ritratto umano davvero sorprendente.
Cinema intimo e al contempo spudoratamente allegorico. Cinema popolare e accessibile, ma di altissimo rigore stilistico. Un unicum, un pezzo raro, la maturazione di un autore e le prove più indimenticabili di due star. Una vetta del nostro cinema.
Un grande confronto recitativo tra Marcello Mastroianni e Sophia Loren: