Italian Graffiti
Percorsi italiani nella (s)memoria cinematogrfaica collettiva
“Anna” (1952) di Alberto Lattuada: fumettone popolare, che aderisce a tendenze ideologiche retrive e convenzionali, ma che si riscatta tramite lo stile
(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)
04/01/11 – “In tv c’era un film strano… c’era la Mangano che prima è suora, poi balla il mambo”: così diceva Nanni Moretti in Caro diario (1993), dopo essersi lanciato in una rivisitazione personale della danza del “Negro Zumbon” in un bar, vedendo in tv la scena più famosa di Anna. In effetti, in quell’esilarante frammento, è messo in luce in estrema sintesi il nocciolo fondante di un grandissimo successo popolare degli anni ’50, primo film italiano a superare il miliardo d’incasso e primo film straniero a esser doppiato in America. E’ nel conflitto, infatti, tra istinto e senso del dovere, tra perdizione e purezza, tra “suora” e “ballerina di mambo”, tra estremi opposti assoluti, che si radica il film di Alberto Lattuada. Opera squisitamente commerciale, nata per replicare il successo di Riso amaro (il trio d’interpreti, Silvana Mangano, Raf Vallone e Vittorio Gassman, è lo stesso), e perfettamente riuscita nell’intento. Opera, inoltre, che declina tali opposti assoluti in una chiave soprattutto popolare e in linea con l’Italia del suo tempo. Poiché, se pure di ritratto di donna si tratta, l’aria è pesantemente misogina, la colpevolezza è sottilmente tutta femminile, tanto che dev’essere espiata tramite una punitiva e necessaria redenzione nella castità e nell’abnegazione verso il prossimo.
L’intreccio, insomma, non è molto lontano dai melodrammi alla Matarazzo del tempo, anzi i canoni richiesti per un’opera simile sono tutti ossequiosamente rispettati. La donna perduta a cui il fato impedisce la redenzione tramite l’amore, il puro di cuore che ci rimette la rispettabilità macchiandosi di omicidio involontario, il “cattivissimo” che è cattivo e nient’altro: lo schema narrativo è grosso modo quello di una sceneggiata, la psicologia è negata, e l’istinto è il carnefice di qualsiasi felicità. Di fatto, da Anna emanano solo idee e categorie che si volevano dominanti nell’Italia dell’epoca, e il senso “popolare” di un’opera risponde solo a esigenze di autorappresentazione reciproca, tra opera e pubblico, di valori condivisi e, al contempo, imposti. Se Anna si solleva dai materiali narrativi a cui aderisce, è puramente tramite meriti di regia. O meglio, tramite l’estrema funzionalità che caratterizza le scelte estetiche in relazione ai materiali narrativi prescelti. Così, al senso di (melo)dramma contribuisce molto la non scontata costruzione a flashback. Così, il conflitto assoluto tra istinto e ragione è ben incarnato nei netti contrasti luministici della fotografia (il buio fumoso del night-club, il bianco accecante dell’ospedale in cui Anna, fattasi suora, dona il suo amore agli altri). Così, il travaglio tra le due dimensioni è reso tramite puri strumenti visivi nella trepidante corsa finale di Anna nel buio del cortile dell’ospedale.
Certo, la costruzione ideologica di tutto il racconto resta da Italietta parrocchiale anni ’50, e da grande sala di provincia (non a caso, anche Tornatore renderà omaggio al film in Nuovo Cinema Paradiso). Ed è facile prevedere che il grande pubblico popolare del tempo si sarà scagliato contro il crudele Gassman, e si sarà commosso per la rinuncia finale di suor Anna. Ma, oltre a una vecchia (?) morale, Anna propone anche una “visione”, meno convenzionale di quanto può apparire nella sua sostanza narrativa.
Il “Negro Zumbon” di Silvana Mangano: