Italian Graffiti – Percorsi italiani nella (s)memoria cinematografica collettiva a cura di Massimiliano Schiavoni
Fino a qualche anno fa, questo era periodo di recupero in tv di vecchi film di Totò, tramite cicli e monografie che riempivano molti torridi pomeriggi d’estate. Con gli anni tale pratica si è un po’ persa, ma Destinazione Piovarolo avrebbe comunque avuto qualche difficoltà a ritagliarsi un suo spazio in quei palinsesti. Si tratta infatti di un’opera appartenente a un Totò meno conosciuto rispetto a quello dedito al comico, e più tardi alla commedia di vaghissimo costume, che ha fatto ridere e continua a far ridere generazioni di spettatori. Si badi bene, non siamo di fronte a un “incontro autoriale” (ciò che è accaduto tra Totò e Rossellini, Monicelli, Pasolini…), ché anzi Domenico Paolella non è mai stato niente più di un onesto mestierante, attivo nel cinema dagli anni ’30 e sempre nel cinema di genere, dal musicarello al peplum, fino anche al poliziottesco e all’erotico negli anni ’70. Si tratta, invece, di un tentativo di “innalzamento” del Totò comico verso la satira e l’allegoria, pur restando dentro una cornice di cinema di vaglia secondo le linee più popolari dell’epoca. Un contesto-cinema che non disdegna nemmeno l’amarezza: il ghigno comico che si smorza, pietoso, in una smorfia di dolore. Una tendenza che scrittori e registi tentarono di cucire addosso a Totò in poche occasioni, soprattutto intorno alla metà degli anni ’50, e che non ebbe un gran riscontro di pubblico, tanto da indurre Totò a ritornare al comico più immediato, magari in coppia con Peppino o altri.
Di Destinazione Piovarolo, reperibile in dvd Dolmen, risultano notevoli soprattutto soggetto e sceneggiatura. Non è la prima volta che Totò è associato dagli autori al profilo del travet afflitto e animato da rocciose speranze di riscatto sociale, eternamente frustrate. Non è la prima volta, anche, che questo profilo di travet trova il suo meschino rovescio nel tentativo di migliorare la propria condizione adeguandosi a malincuore ai meccanismi da Italia del tempo (del tempo?): raccomandazioni, trasformismo, onorevoli da lisciare… Il piccolo, infimo uomo davanti al mostro della burocrazia politica. Già in Totò e i re di Roma (1951) l’attore rasentava temi e umori cechoviani. Qui, gli sceneggiatori Benvenuti e De Bernardi accendono i toni, sia pure sottotraccia, di un certo surrealismo kafkiano. L’attesa dell’unico treno in sosta ogni giorno. L’attesa di un trasferimento di lavoro, che non arriva mai. L’immobilità di un paese di provincia. L’uomo che perde la propria funzione sociale, aggrappandosi al rito. Nel frattempo, dalla piccola stazione di Piovarolo passa un trentennio di vita italiana, dagli anni prefascisti al regime, all’ipocrita democrazia anni ’50. Con accenti satirici che spesso colgono nel segno, specie nel dialogo col ministro dei trasporti. Perché Destinazione Piovarolo però non funziona, e ha difficoltà a incontrare qualsiasi pubblico? Per la sua natura ibrida, innanzitutto. Totò è palesemente tenuto a briglia corta, in funzione di un progetto filmico “altro”. Ma, al contempo, si conservano anche pure situazioni di comico totalmente depotenziate. E l’equivoco intorno al quale tutto il film si regge emerge con forza nel finale. Un finale tirato via, affrettatissimo, occasionale, come spesso accade nel cinema comico italiano di sempre. Come a dire “Volevamo solo farvi ridere, questi personaggi non meritano altro”. Peccato. Totò meritava sperimentazioni più convinte. Purtroppo solo l’anonimo Paolella ci ha provato.
Il primo incontro tra il nuovo capostazione Totò e l’aiutante Tina Pica. Italian Graffiti vi augura buone vacanze, e vi dà appuntamento a settembre: