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Percorsi italiani nella (s)memoria cinematogrfaica collettiva
“Roma” (1972) di Federico Fellini: consueta messa in immagini felliniana di un subconscio, alle prese con la città archetipica per eccellenza. Pura visione per un film lontano da qualsiasi categorizzazione
(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)
14/12/10 – Se il cinema è, sopra ogni cosa, “visione”, Roma di Federico Fellini è la visione per eccellenza. Appartiene alla fase più matura della sua carriera. Viene dopo gli Oscar, dopo il riconoscimento internazionale di Maestro vivente. Viene dopo numerosi e conclamati capolavori, inanellati uno dopo l’altro in meno di vent’anni. Appartiene alla fase più delicata del percorso artistico felliniano, quando la ricerca dell’autore si ferma, o meglio si è già ampiamente definita e inizia ad applicarsi ai materiali più disparati. Roma è senza dubbio il film più audace, e il più riuscito, degli anni ’70 felliniani. Audace perché conduce alla soglia più estrema il concetto di visione rapsodica e soggettiva che, più di tutto, caratterizza e identifica l’autore, almeno dalla maturità dei ’60 in poi. Film che rifiuta la narrazione lineare, ma intanto narra tantissimo. Film che talvolta è stato sommariamente definito (Dio ce ne scampi) “documentario”, ma che del documentario non ha nulla, poiché l’occhio della macchina da presa è costantemente filtrato da una fortissima, quasi violenta entità soggettiva. E, soprattutto, da una ricercatissima ricostruzione del reale in cifre prettamente narrative. Se follemente vogliamo chiamarlo documentario, allora è un documentario sul “modo di vedere” di Federico Fellini.
Postosi all’indagine dell’anima profonda della città che l’ha adottato, l’autore riminese in realtà ne ritaglia qualche frammento, del tutto arbitrario e anche storicamente poco significativo, ma in funzione di una messa in immagini di un proprio repertorio d’impressioni ed emozioni. La Roma conosciuta dal giovane Fellini al suo arrivo nella capitale, la Roma dei teatrini, dei bordelli, delle magnate collettive in trattoria. In contrasto (talvolta ideologicamente goffo, diciamolo), la Roma degli anni ’70, imbruttita e caotica, sporca, brulicante. Che, se si scevera dell’impianto nostalgico e passatista, pur sobrio e sottotraccia, regala alcune delle pagine più belle di tutto il cinema felliniano. Su tutti, l’ingorgo parossistico del raccordo anulare. Vi ritroviamo tutti gli umori felliniani di sempre: un gusto glaciale, e con gli anni sempre più funereo, per l’espressionismo più grottesco, per l’iperbole scenografica, per la coreografia ghignante. Mai come in Fellini, e in particolare proprio in Roma, la direzione della messinscena si fa tutt’uno con la traboccante evidenza scenografica. Mai nessuno come lui ha saputo tradurre, nel nostro cinema, la ricchezza materica di facce, corpi, trucchi e costumi in puro significante. L’avanguardia più ardita e più popolare in un’unica, irripetibile soluzione.
C’è Roma in Roma? C’è, narrata in modo parziale e intimo. O forse non c’è. Ma c’è, sopra ogni cosa, la forza di una visione. Che, rivelatasi a poco a poco per decadente, barocca e pure manierata, ha saputo, dalla fine degli anni ’60 in poi, raccontarci la fine di tanti mondi dispersi. Che fosse la Roma tardo-imperiale, la Roma fascista, la Roma anni ’70, la Rimini fascista, la fastosa Venezia settecentesca, la città mentale dell’uomo, il Novecento intero o l’Italia soffocata in culla dalle tv commerciali. Visioni della fine, costante leit-motiv del maturo e tardo Fellini. Visioni, innanzitutto.
Il raccordo anulare da incubo, dove ogni tanto riecheggia anche il clacson di Vittorio Gassman ne Il sorpasso: