Italian Graffiti
Percorsi italiani nella (s)memoria cinematogrfaica collettiva
“Un sacco bello” (1979) di Carlo Verdone: il miglior Verdone di sempre, che cercando di farsi adulto, ha perso poi la propria specificità
(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)
09/11/10 – Del cinema cosiddetto “ombelicale”, tipicamente italiano anni ’80, le opere dei “malincomici”, provenienti da cabaret e tv, hanno costituito la versione di maggiore successo. Spesso il loro modus operandi è stato considerato una delle tante incarnazioni del “cinema del riflusso”, ovvero del ripiegamento sul privato dopo le inquietudini politico-sociali degli anni ’70. In parte ciò appare vero, e in particolare proprio per il cinema del primo Verdone, che si centra su una forma d’individuo al contempo sociale e astratto, realistico e fuori dal tempo. Ma è altrettanto vero che Un sacco bello, fondato su un indiscutibile individualismo fregolistico e su una vaga antinarratività, riesce, probabilmente andando oltre alle proprie consapevoli intenzioni, a parlarci di un’epoca, anzi a evocare il sentimento di un’epoca come pochi altri film italiani di quegli anni. Di Verdone si è spesso detto che è un ottimo attore e un mediocre regista, e che non ha mai saputo evolversi in un vero autore di cinema. Per lui, in realtà, è forse più corretto parlare di involuzione, perché Un sacco bello, suo primo, acerbissimo film, mostrava invece un notevole spirito cinematografico. La macchina da presa mostra una mobilità (soprattutto negli episodi di Leo ed Enzo), un’autocoscienza di mezzo espressivo in quanto tale sempre meno rintracciabile nelle prove registiche successive. Si veda l’uso delle riprese dall’alto di Leo in strada, schiacciato contro un paesaggio urbano desertico eppure ostile, le riprese circolari sulla terrazza durante la cena con Marisol, e, sul piano della pura espressività, quella finestra chiusa da Enzo sul finale, quando esplode la bomba in lontananza.
Cinema di esibizionismo attoriale, d’accordo, ma anche di rarefazione ed ellissi espressiva. Enzo, come tutti i sei personaggi interpretati da Verdone, chiude la finestra sul presente, e si confina in una dimensione schizoide e totalmente autoreferenziale. Mostri, come nella commedia classica (la scelta del Ferragosto riecheggia il deserto anni ’60 de Il sorpasso), che però piegano esclusivamente verso un’autodifesa dall’esterno, e per questo ingigantiscono se stessi in un grottesco, e un po’ funereo, psicodramma. Nessuno cambierà, tutti resteranno prigionieri di se stessi dopo uno svogliato tentativo di relazionarsi col mondo. Uno dei pallini più ricorrenti nella carriera di Verdone è sempre stato l’approdo verso un cinema più adulto. Ma si è più visto, in seguito, un Verdone così amaro nel ritratto del mammone? Così amaro nel racconto di una malcelata solitudine (la sequela delle telefonate di Enzo, in cerca di compagnia per evitare un Ferragosto solitario, al tempo stesso fa ridere e fa male)? La grande forza narrativa risiede tutta nell’assenza di qualsiasi evidenza. Più avanti Verdone s’impastoierà nella dichiarata “commedia di costume”, dove l’amarezza è palesemente ricercata e meditata, un valore a prescindere che presuppone al progetto, insistito, calcolato e meccanico. Un sacco bello, invece, evoca senza insistenze, solo attraverso l’osservazione di comportamenti. E anche il grottesco, che pure è altissimo e talvolta manierato, dissolve i propri eccessi nella pregnante essenzialità del contesto.
Uno degli apici del fregolismo verdoniano, in cui fa interagire tre dei suoi personaggi: