Italian Graffiti – Percorsi italiani nella (s)memoria cinematografica collettiva a cura di Massimiliano Schiavoni
Tenutosi sempre lontano, e orgogliosamente, dal cinema socio-politicamente impegnato, Fellini cedette all’apologo solo nell’ultima fase della sua carriera, nell’età in cui i grandi autori possono togliersi tutti gli sfizi che vogliono. Il regista, sia chiaro, ha potuto girare in totale libertà creativa praticamente da sempre, ma nel 1979 il suo riconosciuto status di maestro vivente gli permette anche di elevarsi a “maitre-à-penser”, ad autorevole voce artistica dalla quale è lecito aspettarsi grandi verità non solo sulla vita e la sua “bella confusione” (prima ipotesi di titolo per Otto e mezzo), ma anche sui massimi sistemi, quantomeno italiani. Prova d’orchestra nasce così: il piccolo film-saggio, film-sfida, brevissimo (appena 70 minuti), girato con budget ridotto tutto in un unico interno, finanziato e concepito per la tv, a cui poi seguiranno apologhi e allegorie di più largo respiro come E la nave va (1983) e Ginger e Fred (1986). Benché (goffamente) mascherata in una struttura narrativa tutta piegata all’allegoria astratta, la riflessione del film prende le mosse dalla realtà più stringente e drammatica di quegli anni: il clima oscuro e inquietante degli anni di piombo nel suo periodo più tragico e violento (solo pochi mesi prima è avvenuto il rapimento e uccisione di Aldo Moro), la società civile in disfacimento, gli scontri di piazza, il sindacalismo necessariamente esasperato dai riflessi autoritaristici delle istituzioni del tempo.
Di Prova d’orchestra, reperibile in dvd Elleu Rai Trade, si è spesso detto che la posizione di Fellini resta ambigua, con malcelate aderenze all’autoritarismo. Il finale, in tal senso, è significativo. Dopo aver assistito all’emersione dell’anarchia, dovuta alla rivolta degli orchestrali contro la figura del direttore d’orchestra, l’ormai famoso maglio di ferro sfonda una parete della sala prove. Gli orchestrali restano inebetiti, mentre il direttore ricomincia a dare ordini con toni sempre più isterici e nazistoidi. E il film si chiude su schermo nero con un’ultima, pregnante battuta: “Daccapo!”. Più che prendere le parti del direttore, Fellini mostra in realtà una sua (discutibile, certo) visione del mondo. Una sorta di palingenesi circolare, dove al caos, seguito all’esplosione di tutte le regole di convivenza civile, segue giocoforza una recrudescenza autoritaria, da cui poi a poco a poco la democrazia riconquista il suo predominio, per poi finire di nuovo in caos… e via così, in eterno. Sicuramente Fellini ha sempre tenuto un atteggiamento profondamente scettico verso le esasperate rivoluzioni sociali (basti vedere l’isterico bozzetto riservato alle femministe in La città delle donne, 1980), ma altrettanto sicuramente è eccessivo tacciarlo di idee retrive e autoritarie. Piuttosto, anche in Prova d’orchestra il regista non sfugge a se stesso. Postosi alla narrazione di un’allegoria sociale, in realtà anche qui l’autore riconferma che, alle polemiche fuori dal suo piccolo mondo privato, preferisce le crepuscolari malinconie dell’individuo e dell’atto creativo. Il messaggio sostanziale è “Perché togliere all’arpista il suo mesto e solitario, e sì borghese, piacere della musica in nome di ideali collettivi? Perché violare l’individuo per uno scopo al di sopra di noi?”. Prova d’orchestra è un film meno a tesi di quanto appaia. Semplicemente, è un’ennesima parola spesa a favore del “pensiero debole”, in un’epoca, la fine degli anni ’70, in cui i pensieri forti abbondavano e tracimavano.
Il finale, con meravigliose musiche di Nino Rota: