Italian Graffiti – Percorsi italiani nella (s)memoria cinematografica collettiva a cura di Massimiliano Schiavoni
Ok sì, Fico d’India è decisamente un filmetto. Non è di certo il miglior film di Steno, men che meno il miglior film di Renato Pozzetto. Forse Gloria Guida può considerarlo una delle “punte” della sua carriera cinematografica, visto che si tratta della sua prima occasione di sdoganamento dalla serie B, percorso di “innalzamento” di breve respiro dato il suo ritiro dal cinema pochi anni dopo. Ma la congiuntura non è propizia, dal momento che proprio in quel volgere tra anni ’70 e ’80 i confini tra serie A e serie B si slabbrano, si confondono, e i concept attorno ai quali nascono tante commedie e commediole nostrane, dirette anche da buoni autori come Steno, ereditano temi, figure e attori (talvolta pure sceneggiatori) dalla commedia sexy. Un abbassamento generalizzato. La serie B affossa lentamente pure la serie A. E Gloria Guida, che vorrebbe scappare dalla doccia, ci si ritrova sotto per l’ennesima volta.
In Fico d’India, edito in dvd 01, non si rilevano particolari volgarità, e il nudo è inserito pretestuosamente solo un paio di volte. Ma è la struttura stessa del film, il ridottissimo raggio di “copertura del reale” che pare discendere dall’universo strapaesano della commedia sexy. Il film, a conti fatti, è girato tutto in una piazza e in un appartamento. In qualche modo, sembra pure voler piegare a sfruttamento massivo il grande successo colto la stagione precedente con La patata bollente. La premiata ditta Steno-Pozzetto è la stessa, la bella di turno Fenech lascia il posto all’eterna rivale Guida, e soprattutto il racconto ripercorre le linee di massima di quel bel film: in entrambi i casi, un ospite indesiderato e inamovibile in casa che può suscitare pettegolezzi in città. Là un gay pestato dai neofascisti, qui un noto cornificatore che di nascosto si è infilato nel letto della moglie e che, colto in flagrante, s’è fatto venire un infarto. E il tessuto del racconto si regge sulle stesse coordinate: sotterfugi, ansie di nascondere l’ospite agli occhi della gente, equivoci, peripezie… Con annesso sconfinamento, sul finale, nell’allusione gay, stavolta un po’ forzata. Evidentemente Pozzetto truccato e vestito da donna, in quegli anni, faceva smascellare il pubblico e portava tanti soldi ai produttori. Il dato più evidente del basso profilo a cui la commedia di quegli anni inizia a piegarsi è rilevabile nell’estrema rarefazione del contesto sociale. A uno spettatore di altri paesi, ma anche italiano che non conosce nulla dei nostri anni ’70, risulterà pressoché incomprensibile il leit-motiv degli incontri-scontri tra Pozzetto e la gang di Diego Abatantuono (una delle prime occasioni cinematografiche per la macchietta del “terrunciello”). Chi sono questi teppisti? Da dove vengono? Perché la gente in quegli anni si barricava in casa e le nostre amate piazzette restavano deserte la sera? Può bastare il “terrunciello” per raccontare il tessuto sociale esploso dell’epoca? In questo, forse, risiede il significato più pregnante di un’opera come Fico d’India. Una commedia visivamente oscura, claustrofobica, quasi tutta in interni, ambientata di notte per una buona metà. Un’Italia che si fa piccola e barricata, che esce di casa con la pistola in valigia, che teme l’esterno, sia esso teppismo o pettegolezzo. E alla quale, quindi, non resta che continuare a giocare con il privato, tra piaceri sessuali e tragicommedie di corna.
Una delle prime apparizioni al cinema di Diego Abatantuono in veste di “terrunciello”: