Italian Graffiti – Percorsi italiani nella (s)memoria cinematografica collettiva a cura di Massimiliano Schiavoni
Esiste anche un Roberto Rossellini “in crisi”, se così si può dire, ovvero invischiato in una tormentosa transizione creativa tra la prima grande pulsione neorealistica degli anni ’40 e i tardi progetti didattico-televisivi a cavallo tra anni ’60 e ’70. Autore di percorso coerente quanto aperto a continue problematizzazioni delle proprie chiavi espressive, quando si accinge alla lavorazione di Era notte a Roma (1960) Rossellini ha già attraversato più di una stagione: prima autore a suo modo “di regime” negli ultimi anni fascisti, poi rappresentante per eccellenza del neorealismo, poi, nel periodo del connubio con Ingrid Bergman, in cerca di un’espressività del tutto nuova e personale. Poi, la crisi. Adesso, cosa girare? Cosa raccontare? Secondo questa linea, Era notte a Roma si presenta, a un primo sguardo, come un ripiegamento sulle tematiche da cui il percorso di Rossellini ha preso le mosse: un ritorno alle origini, un’esigenza di riallacciarsi con tutto ciò che ha costituito la rinascita artistica del cinema italiano. Di nuovo la seconda guerra mondiale, di nuovo il fatidico 1943, di nuovo Roma occupata dai nazisti, di nuovo i borsaneristi, la fame, la miseria, la “povera gente” che cerca di sopravvivere in mezzo a mille paure e ristrettezze. Ovviamente, nel frattempo il cinema italiano e lo stesso Rossellini hanno compiuto un percorso, e gli anni ’40 son già lontani. Così, Era notte a Roma è espressivamente lontano da Roma città aperta. Sparisce del tutto l’urgenza del narrare, lo stile febbrile e concitato, la conclamata corrispondenza tra “pericolo” e “fare cinema”. Adesso è tempo di produzioni più ricche, più meditate, anche “più accurate” nel senso più tradizionale del termine. Fatalmente, meno efficaci.
Tuttavia, proprio nello scorcio di transizione creativa in cui Era notte a Roma vede la luce, si compendia più o meno tutto il cinema pregresso di Rossellini. Se il soggetto rievoca scopertamente le sue opere più fortunate, d’altro canto il passo narrativo, la centralità della figura femminile di Esperia (una bravissima Giovanna Ralli) e la lunghezza meditativa delle sequenze discendono direttamente dal “periodo-Bergman“. Inusualmente lungo per un film di Rossellini (ne circolano due versioni: una di 151 minuti, l’altra scorciata di un quarto d’ora, raccolte da Medusa in un unico cofanetto dvd), in realtà la vicenda si dispiega per tre quarti tutta all’interno di un appartamento, rifugio precario di tre soldati alleati in fuga, e l’attenzione è tutta concentrata sul confronto umano tra figure di reciproche e siderali distanze culturali, indagate tramite distesi piani-sequenza dal lento passo narrativo. Se da un lato il proprio cinema pregresso fa da fondamento al film, dall’altro Rossellini si proietta anche verso nuove forme espressive tramite notevoli novità tecniche e azzardi di stile: per la prima volta nella storia del cinema è utilizzato un antenato dello zoom, mentre tutti i personaggi parlano nella loro lingua, cosicché quasi tutto il film deve servirsi dei sottotitoli – scelta assai “impopolare” e coraggiosa.
Certo, pur mantenendosi nel tratto dell’antiretorica e dell’antidrammaticità a cui Rossellini era legato, il film non evita sempre le trappole di un mielato e “cattolico” umanesimo (si veda il monologo del soldato russo la sera di Natale, patetico oltremisura). Ma resta, comunque, un buon Rossellini. Rilettore del proprio passato artistico, e al contempo proiettato verso nuove esplorazioni creative.