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Percorsi italiani nella (s)memoria cinematogrfaica collettiva
“Scipione detto anche l’Africano” (1970) di Luigi Magni: particolarissima declinazione della commedia all’italiana, tra populismo, cenni di filosofia storica e (facili) allegorie
(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)
13/07/10 – Luigi Magni fa un po’ storia a sé, nel cinema italiano popolare dalla fine degli anni ’60 ad anni ’80 inoltrati. Autore di compattissima ispirazione, per circa trent’anni si è costantemente dedicato a riletture storiche dell’antica Roma, del Risorgimento, addirittura delle Sacre Scritture (il poco riuscito Secondo Ponzio Pilato del 1988), secondo una chiave di commedia popolaresca, anticlericale e d’impronta prettamente romanocentrica. Non ha precedenti diretti, né diretti eredi. Ha riscosso, specie negli anni ’70, grandi successi di cassetta, per poi essere rapidamente catalogato, talvolta, come autore di un cinema nato già vecchio, al crocevia di tendenze estetico-narrative di facile presa ma di superficialissima riflessione. In effetti, il cinema di Magni può essere letto come una delle varianti (una delle più originali, in fondo) della classica commedia all’italiana, di cui ripercorre spirito e convenzioni: riapplicati, però, a contesti storici di solito evocati per sommissimi capi, e sorretti da una sorta di “filosofia storica” populistica e, nelle sue punte più estreme, qualunquistica. L’idea di fondo, a impalcatura di tutta la sua filmografia, è “Il Potere tutela se stesso”, e un certo verghiano “All’aria ci vanno solo i cenci”. Una sorta di stoicismo storico che affonda davvero nella latinità.
Ne è prova Scipione detto anche l’Africano, terza opera di Magni, una delle meno ricordate e tutto sommato delle meno riuscite. Troppo paludata, troppo teatrale, qua e là memore dei drammi shakespeariani di ambiente romano, che demanda tutto, o quasi, alla parola, e pochissimo all’immagine. Pochissimo comico (e quando ci prova, cerca la risata tramite facili mezzi), sommario nella ricostruzione storica (curioso: come molti altri film dell’epoca, è ambientato in mezzo alle rovine romane, ma ai tempi dell’antica Roma i palazzi non erano ancora rovine), fondato sul canone narrativo, comico più sulla carta che nei fatti, di una Roma antica dove si parla romanesco e dove i maneggi del potere si radicano in vizi contemporanei, il film si regge interamente sul duello attoriale tra Marcello Mastroianni e Vittorio Gassman, che si combattono a colpi di moralità e di “politica pulita”, alludendo allegoricamente ai vizi dell’Italia moderna.
Di rincalzo, una bella prova di Silvana Mangano (una delle sue ultime prima di ritirarsi dalle scene), ma soprattutto un’entusiasmante partecipazione di Ruggero Mastroianni, fratello somigliantissimo di Marcello e illustre montatore, improvvisatosi attore solo per questa volta, per riecheggiare, nel conflitto tra i fratelli Scipioni, la sua stessa posizione di “fratello-ombra” di una star del cinema. I brani più riusciti, e più divertenti, sono i suoi. Ma non è da trascurare nemmeno l’assoluta follia di affidare il ruolo di Massinissa, guerriero berbero, nientemenoché a Woody Strode, stella dello spaghetti-western doppiato in un improbabile romanesco. Un africano antico, impersonato da un ex-pistolero, che parla come il Monnezza. Le ingenuità estetiche abbondano, ma l’insieme, che all’epoca poteva apparire anche un tantino pedante e serioso, in diacronia si trasforma in totale bizzarria.
Un duetto tra Ruggero Mastroianni e Woody Strode: