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Percorsi italiani nella (s)memoria cinematogrfaica collettiva
“Madonna che silenzio c’è stasera” (1982) di Maurizio Ponzi: i “malincomici” e surreali degli anni ’80, tra trasandatezze estetiche e sentimento di un’epoca
(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)
08/06/10 – Fa un po’ impressione riparlare oggi di Francesco Nuti, non tanto per le infinite traversie personali degli ultimi 15 anni, quanto per il silenzio che l’ha sommerso. In ambito storico-critico non vi è mai stato un vero interesse per un’analisi seria e significativa non solo del fenomeno-Nuti, bensì di tutto il cinema dei “malincomici” che di fatto costituisce l’unico valido prodotto di cinema popolare italiano anni ’80, l’unica espressione creativa di larghissimo consumo che conservi una sua valenza di testimonianza culturale. Nuti, insieme a pochi altri “malincomici” della sua generazione, è stato traghettatore verso una nuova fase storica del nostro cinema in cui, paradossalmente, lui stesso non ha trovato più posto, mentre bene o male tutti gli altri suoi colleghi si sono riallineati e ricollocati (anche se resta vero che il miglior Carlo Verdone e il miglior Roberto Benigni, ad esempio, vadano cercati comunque tra fine anni ’70 e anni ’80, e che Massimo Troisi, nel suo purtroppo breve percorso negli anni ’90, non abbia più prodotto opere ai suoi livelli precedenti). Prima di allineare un campione d’incassi dopo l’altro, per tutti gli anni ’80, dedicandosi anche alla regia, Francesco Nuti si era affacciato timidamente al cinema insieme ai Giancattivi sotto la direzione di Alessandro Benvenuti in Ad ovest di Paperino (1982), per poi esordire da “solista” e affidarsi alle mani esperte di Maurizio Ponzi per un trittico di film che restano tra i suoi più riusciti. Il primo fu Madonna che silenzio c’è stasera (seguiranno poi Io Chiara e Lo Scuro e Son contento): film piccolissimo, girato in evidenti ristrettezze, con vistosissime debolezze di sceneggiatura, ingenuità estetiche, artigianerie varie nella recitazione che denotano una totale mancanza di direzione attoriale, montaggio quasi amatoriale, lentezze e insistenze pochissimo “cinematografiche” (tanto per dire, nell’incipit del film al personaggio appena sveglio servono più di dieci minuti per uscire di casa, e la macchina lo segue in una serie di monologhi totalmente antinarrativi). Ma lo spirito è del tutto nuovo. Se al centro del film si erge, debordante, un attore di derivazione cabarettistica che invade tutti gli spazi espressivi del film (tratto comune a tutti i “malincomici”), d’altra parte la comicità messa in gioco è molto diversa dai canoni della nostra commedia classica. Comicità assai poco “italiana”, che mescola reminiscenze di comicità passate e non autoctone (lo slapstick, il nonsense, un qualcosa di chapliniano nel carattere lunare e sognatore del protagonista), ma che al tempo stesso si radica profondamente nella nostra realtà sociale dell’epoca. Il risultato è un’espressione creativa originale e difficilmente ripetibile, ovvero un comico che flirta col surreale nello scontro con condizioni sociali pertinenti a un preciso contesto storico e socio-culturale.
In primo luogo, è evidente il restringimento dell’orizzonte: con gli anni ’80 esplodono nuove forme di regionalismo, si rifiuta (consapevolmente?) il “romanocentrismo” della commedia all’italiana e si dà vita alla narrazione di piccole storie di provincia. Il film di Ponzi è uno dei più pertinenti in questo senso. La macchina segue la giornata-tipo di uno sfaccendato di Prato con la testa tra le nuvole, e ne racconta lo scontro con la propria realtà sociale tramite le chiavi dell’assurdo e del surreale. Mancanza di lavoro, totale disimpegno politico, figure preda di se stesse e della loro coazione a ripetere (si veda tutti gli incontri in città che Francesco colleziona nella sua giornata: il pazzo della stazione, l’uomo che gli si avvinghia in autobus, l’anziano sulla panchina…). Gli anni ’70 hanno fatto tabula rasa di qualsiasi vera connotazione sociale, e quel che ne rimane è una landa sperduta di automi spersonalizzati, tutti avvitati intorno alle loro piccole, afosissime certezze, condannati a una vita di desolante provincia ma felici di esserlo. E la nuova generazione è pigra e sfiduciata, incapace di cambiare o di fuggire, legata alla famiglia per paura dell’esterno, cosicché chi se ne va di casa, si trasferisce sullo stesso pianerottolo della mamma. Se dopo la violenza degli anni ’70 si è ritornati al conforto del privato, ciò si è concretizzato in una chiusura terribilmente particolaristica, frutto di timore del confronto ed egotismo. A ben vedere, in quel cinema così esteticamente trasandato e quasi mai consapevole, gli anni ’80 trovano una delle loro migliori narrazioni. Non sempre, è vero, il cinema di Nuti e dei malincomici sarà così pregnante e significativo come testimonianza di un’epoca, ma Madonna che silenzio c’è stasera racconta moltissimo, in filigrana, di una stagione del nostro Paese a rischio di sparizione nella memoria, in quanto desolante e antinarrativa come poche altre.