Dal nostro inviato MASSIMILIANO SCHIAVONI
Da qualche anno, e per fortuna, il documentario riscuote una particolare attenzione al Festival di Venezia. Ne è prova la selezione per “Controcampo Italiano”, dove sono già passati i lavori di Donatella Finocchiaro, Marco Dentici, Antonello Sarno, Marco Spagnoli. Stasera è la volta, invece, di Io sono. Storie di schiavitù di Barbara Cupisti, un lavoro particolarmente riuscito, dove la filmaker si pone all’indagine della realtà dell’immigrazione in Italia. La Cupisti raccoglie testimonianze, visita i luoghi e non-luoghi dove gli immigrati vivono, spaziando tra etnie e culture diverse che per strani giri di desolante destino si ritrovano a condividere una comune realtà di emarginazione, disagio, e sopra ogni cosa di sfruttamento. L’indagine appare meno antropologica e sociale, e più specificamente emotiva. L’autrice sceglie infatti la macchina a mano, sia per forma di rispetto nei confronti della realtà testimoniata (piazzare un cavalletto su un barcone di migranti sarebbe in effetti una sorta di “atto di violenza”), sia come scelta emotiva durante le riprese delle interviste/confessioni. Così come la stessa macchina a mano conduce nell’universo dei centri di prima accoglienza, delle arrangiate baracche, dei luoghi dove la vita cerca faticosamente di mantenersi tale, con grande pudore espressivo e al contempo partecipazione emotiva.
Il discorso della Cupisti, poi, si appunta sul rapporto tra immigrazione e mondo del lavoro. Si va dal ragazzetto egiziano sottopagato, con due lavori stagionali in alternanza, al traffico della prostituzione transessuale. Una radiografia di un mondo sommerso in cui nuove forme di schiavitù, per l’appunto, trovano espressione e radicamento. “L’elemento più forte e più unificante che ho trovato in tutti loro, in tutti gli intervistati, è una grande dignità umana – ha confermato l’autrice a RadioCinema – Troppo spesso, nel nostro mondo di benessere, ci dimentichiamo di queste realtà che ci passano accanto. Abbiamo quasi sempre un moto di rifiuto, istintivo, verso di loro quando ci passano vicini. Col mio film volevo abbattere questa distanza”. Si è aperta dunque una nuova, florida stagione italiana per il documentario? In realtà è una tendenza in atto da qualche anno. Ma forse questa edizione veneziana ha messo definitivamente in risalto l’ottimo stato di salute del documentario italiano, la fertilità della sua ricerca, il suo desiderio di conquistare un totale riconoscimento del suo statuto cinematografico.