Dal nostro inviato ALESSANDRO ANIBALLI
Con il documentario Into the Abyss, presentato a Torino 29 nella sezione Festa mobile – Paesaggio con figure, Werner Herzog affronta di petto la questione della pena di morte negli Stati Uniti e indaga una vicenda in particolare, quella di due ragazzi che, in una cittadina di provincia del Texas, uccisero tre persone solo per avere una bella macchina con cui fuggire. Uno dei due è stato in seguito condannato a morte ed Herzog lo intervista pochi giorni prima della sua esecuzione, per poi andare a interpellare amici e parenti dei due colpevoli, come anche amici e parenti delle vittime. Incorniciato infine da due colloqui con delle persone che lavorano nei bracci della morte, un reverendo all’inizio del film e una guardia penitenziaria alla fine (due personaggi non direttamente legati al caso in questione), Into the Abyss riesce a partire dall’evento particolare per arrivare a ritrarre la profonda provincia americana, quella più ignorante e inconsapevole, violenta e folle per ossessioni e degenerazioni. Era forse da La ballata di Stroszek (1977) che Herzog non affrontava in modo così diretto il nucleo vuoto e mortifero della civiltà americana. Rispetto a quel lungometraggio di fiction però mancano i simbolismi evidenti (lo sguardo stupido e ottuso dei polli, la figura del cerchio come metafora di un’esistenza senza obiettivi) ed emergono invece le parole, i volti e la residua umanità di queste persone che si sono trovate a vivere in un Texas in cui la cultura è regredita a uno stato degenerato e, in una natura aggredita dall’inciviltà, hanno finito per prendere il sopravvento i peggiori istinti dell’animo umano (straordinario dal punto di vista simbolico il fatto che quella macchina rubata è rimasta poi per anni abbandonata in un parcheggio tanto che un albero le è cresciuto sotto, fino a sfondare la carrozzeria).
L’opposizione tra natura e cultura, tipica della filmografia del regista, diventa qui un paesaggio di rovine e di lutti, per una ricerca spasmodica di un briciolo di umanità. Ed è un profondo senso etico quello che guida Herzog nel fronteggiare ciascuno dei suoi interlocutori senza giudicarli, dal ragazzo condannato a morte alla donna che ha subito la perdita per omicidio della madre e del fratello. Into the Abyss è, naturalmente, un film in cui si condanna la pena di morte, ma non in modo urlato o con mezzi didascalici come rischiava di succedere con un tema siffatto. La condanna arriva ad esempio nel momento in cui ci si commuove nel sentire parlare il padre carcerato di uno dei due ragazzi, quello che non morirà, che nel suo unico momento davvero paterno ha convinto i giudici a non uccidere suo figlio, perché con un padre condannato a 40 anni di galera non aveva avuto la possibilità di crescere in modo degno. Ed è un film profondamente umanitario per la sua stessa concezione: Herzog per una volta si affida completamente alla parola e alla forza inestimabile del racconto. Perciò, la sua insistenza nel voler chiedere agli intervistati cosa provarono in un certo momento particolarmente drammatico va nella direzione dell’elaborazione del lutto, di una forma di consapevolezza che si ha solo quando si riesce a verbalizzare una sensazione. E, per una volta fermamente razionalista, Herzog fa sì che i suoi personaggi riescano a mostrare, nonostante tutto, la propria umanità, il loro “cogito ergo sum”.